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Stanze sul mare.

Un blog di psicoanalisi e arte

Ink di Dimitris Papaioannou: una parola non verbale

Ink. Play for two (2023). Ph: Julian Mommert

LE RADICI DEL MITO

In queste settimane si sta concludendo il tour di Ink, l’ultimo lavoro di Dimitris Papaioannou, coreografo greco, diventato famoso per il suo uso dei corpi nello scenario contemporaneo della teatro-danza. Corpi messi a nudo, plasmati, argillosi, utilizzati come materia prima per creare sequenze di immagini che rotolano l’una sull’altra in un continuo e armonico cambiamento di forme, come bave di nebbia sui profili dei pendii. Le immagini che affiorano come elementi isolabili in Ink (come anche in altri lavori precedenti di Papaioannou) si rifanno alla tradizione della terra natale dell’autore, cioè alla mitologia greca. Come l’autore stesso afferma, la sua ricerca artistica ha a che fare con «il sapere degli archetipi» che animano e che vengono «cristallizzati nel mito e nell’arte». In particolare, Ink sembra riprendere il mito di Crono, un padre che prima ama, poi odia, infine divora i suoi figli per paura di essere ucciso dalla generazione a venire. O ancora, si potrebbe dire più in generale che Ink metta in scena una storia dell’origine del soggetto, che a ben guardare è l’interrogativo alla base di ogni racconto mitologico, l’osso stesso della mitologia.

In scena, infatti, vediamo l’incontro di un uomo, vestito e educato, con un suo possibile altro; un altro informe e malleabile, che di primo acchito non è nient’altro che un sussulto della terra, uno spruzzo d’acqua, lo spasmo di un telone di plastica trasparente. Questi cresce prendendo poi le forme di un anfibio, di un animale di terra ma anche marino, felino ma anche tentacolare, un po’ preda, un po’ predatore. Animale che poi, per la prima volta, si percepisce nudo e sente il bisogno di coprirsi, quanto basta per avvicinarsi al sembiante umano. Un figlio educato alla vestizione da suo padre, ma anche amante del padre. Un bambino oggetto d’amore, ma anche di odio: il proprio doppio allo specchio. In un momento di rigetto, cerca di tornare indietro verso la sua precedente natura animale ma, ormai traviata, questa può essere recuperata solo in una condizione di cattività, come bestia da circo. Infine, bestia, uomo, figlio, amante, viene ritenuto insopportabile, distrutto e mangiato da quel primo uomo, vestito e educato, al cui sguardo si era imposto.

LA RICERCA DEL PRE-MITOLOGICO

La ricerca di Papaioannou ha a che fare, dunque, con gli archetipi ed il mito. Di questi però sembra ereditare non tanto le trame, i significati, quanto le immagini, le suggestioni visive. In fondo la parola “archetipo” rimanda proprio ad un elemento originario, strutturale, che ha una consistenza visiva, prima dell’ordine della parola, prima dell’invenzione di un linguaggio: dal greco ἀρχέτυπον, composto di ἀρχε- “inizio, principio originario” e τύπος “modello, immagine”.

L’operazione che fa Papaioannou non è tanto quella di mettere in scena l’universalità degli insegnamenti mitologici, non si tratta di una rilettura o di una interpretazione in chiave moderna del discorso mitologico; l’operazione è più complessa e coincide piuttosto con il rendere presente un’epoca pre-mitologica, dove già erano presenti tutte quelle schegge di immagini che poi sarebbero diventate mito, e che infatti risuonano negli occhi degli spettatori come delle ancore di già noto, di già conosciuto, ma ancora non inquadrate in nessuna forma, non inserite in una storia, non articolate in una frase, bensì mescolate tutte insieme, come la pienezza di un tutto pre-verbale, come l’origine dei tanti possibili, prima di ogni atto. Ed è proprio perché siamo prima del mito, prima di un taglio, prima dell’atto di parola, che si può assistere alla scena in cui un padre e un figlio divengono amanti senza che questo turbi lo sguardo dello spettatore, senza che si abbia l’impressione che una barriera sacra sia stata oltrepassata.

Il mito, al contrario, pur parlando dell’origine dell’umano, la supera, poiché la struttura in un linguaggio che coagula, miniaturizza e allo stesso tempo seleziona ed elide parti di quelle schegge di immagini originarie, creando una differenza: una figura che si staglia su uno sfondo. Usando le parole di Alessandro Baricco, «il mito è un prodotto artificiale con cui gli umani pronunciano a se stessi qualcosa di urgente e vitale». Tale prodotto assume poi il carattere di un destino, e cioè rappresenta allo stesso tempo un punto di origine e un futuro profetizzato. In questo modo, il mito, da prodotto costituito, diventa anche potere costituente, andando a rifondare non solo la realtà (sotto forma di un’immagine e di uno sfondo), ma i nostri stessi occhi, diventando, citando Franco Arminio, l’«entroterra» del nostro sguardo. In questo modo, il mito e le sue storie smettono di essere oggetti manipolati e manipolabili da parte di un soggetto, e diventano parte del soggetto stesso, in una maniera tale per cui da esse non siamo più in grado di prendere le distanze. Il mito, dunque, rappresenta un tempo due di un tempo uno pre-mitologico dominato dalle immagini. Questo secondo tempo riorganizza quel materiale caotico pre-linguistico sotto forma di un linguaggio, che a sua volta è un prodotto artificiale, che retroagisce su quel tempo uno ristrutturando allo stesso tempo la realtà ed il soggetto in maniera irreversibile.

Il lavoro di Papaioannou mette in discussione, fa tremare questa irreversibilità: utilizzando immagini e non parole, presentifica quel tempo uno pre-mitologico che precede il linguaggio, lasciando lo sguardo dello spettatore privo del suo entroterra, o meglio mostrandolo come possibilità invece che come necessità. Il tutto in una maniera non traumatica ma pacatamente sognante, che ricorda la dimensione lacaniana di lalingua: una produzione di parole che non mira alla comunicazione, che non produce senso, ma il cui fine si esaurisce nell’emissione stessa del suono, nel godimento del corpo che ne deriva. Si tratta di qualcosa di simile alla lallazione dei bambini, che cominciano a sperimentare l’emissione di suoni ripetuti come esercizio per far vibrare il corpo, prima di ogni intenzionalità comunicativa. Prima e oltre il linguaggio conosciuto, prima e oltre la strutturazione della società secondo la legge mitologica dell’Edipo, sembra aprirsi la possibilità di creare linguaggi nuovi, dove al primato della parola si sostituisce quello dell’immagine.

Il lavoro di Papaioannou può essere allora concettualizzato come una sequenza di suoni che contengono parole e sillabe conosciute - “no”, “mamma” - mescolate insieme ad altre vocali e consonanti in un flusso ininterrotto, in un unico ululato, che non permette di isolarle. Lalingua è anche il linguaggio del materno, cioè il linguaggio dell’origine, del godimento della vicinanza dei corpi che segna l’inizio della vita. Non a caso il palcoscenico di Ink è inondato continuamente dall’acqua, come acqueo è il grembo materno. Elemento che oggi sempre più ricorre sui palcoscenici della danza contemporanea, e non - o non solo - per moda, ma piuttosto per una spinta condivisa alla ricerca di un linguaggio non verbale, che riprenda qualcosa del materno. Basti pensare ad Ivan Manzoni con WaterWall, a Milk di Bashar Murkus, un lavoro incentrato proprio sulla nascita ed il femminile, alle coreografie di Alexander Ekman, all’introduzione dell’acqua nel balletto classico con Edward Clug, e nel teatro greco all’Elena di Davide Livermore.

Ink. Play for two (2023). Ph: Julian Mommert

UNA LOGICA DELLA MUSICA

Dominato dall’immagine sopra alla parola, con giochi d’acqua, inganni visivi e corpi perfettamente nudi, Ink, come in generale tutto il lavoro di Papaioannou, si costituisce come una sequenza di quadri, una serie rapida di immagini statiche, di minuti emblemi di bellezza, di fotogrammi che nella loro successione creano l’illusione di un movimento, in maniera simile alla composizione di un cartone animato o al funzionamento di uno zootropio.

Per questo motivo il lavoro di Papaioannou è stato spesso accostato alla rappresentazione del tableau vivant, dove corpi in carne ed ossa si fanno immagine statica, come in un quadro ma pulsante. «Questo è il più grande equivoco sul mio lavoro», commenta tuttavia l’autore in una conversazione privata alla fine dello spettacolo. L’accento del suo gesto non deve essere messo sui momenti statici, che pur ci sono, bensì sui movimenti di trasformazione che collegano una stasi all’altra. La sua ricerca riguarda il movimento: lo sciogliersi delle forme nel suo essere non dissipativo. I momenti di stasi sarebbero invece ciò che può essere formalizzato, cristallizzato nella parola.

Ma come afferma David Cronenberg nel suo ultimo film, Crimes of the future, dare un nome è qualcosa che snatura la cosalità dell’oggetto, producendo una perdita “di significato”. Nel film, infatti, i due protagonisti asportano degli organi “nuovi” di origine tumorale l’una dal corpo dell’altro, come forma di performance artistica. Questi organi vengono catalogati e marchiati con un nome. Uno dei due personaggi però è contrario a questa pratica, afferma che il nome, una volta impresso, prende il sopravvento sopra “la forma dell’organo”, rimodellandola e portandosi via il “significato” dall’organo stesso per trasferirlo su di sé. In maniera analoga, l’operazione di Papaioannou vuole usare immagini che sfuggono al nome, che non vengono segnate da una perdita, che si mantengono sempre in movimento, seguendo una logica che appunto non è quella del linguaggio, ma piuttosto, come ha affermato l’autore stesso, «è una logica della musica».

Dunque, se il mito rappresenta per eccellenza l’impronta del linguaggio sopra i corpi, Papaioannou cerca al contrario un sapere più antico, un non-sapere precedente, “fuori forma”, musicale. Questa ricerca di un linguaggio fuori linguaggio, di un linguaggio musicale, è un tema che è ricorso negli anni, migrando di mano in mano tra diversi autori in diversi campi. Basti pensare a Giorgio Manganelli, che con questa stessa mira ha approcciato la scrittura, cioè con “una profonda invidia per la musica” che continuamente cercava di evocare tramite tortuose costruzioni di parole. In Papaioannou la ricerca di un linguaggio non verbale si ritrova come una costante, come il suo marchio, come quella frase che nella clinica lacaniana può riassumere il fantasma individuale. Una frase semplice, abbastanza breve, ma ostinata, che si ripete nella variazione di tutte le parole pronunciate, e che col procedere di un’analisi si fa sempre più secca, più asciutta, perdendo parole, articoli, parentesi, orpelli, aggettivi, riducendosi sempre più all’osso, in certi casi arrivando a coincidere con una singola parola che le contiene tutte, che contiene tutto quanto è stato detto e fatto in una vita.

Ink. Play for two (2023). Ph: Julian Mommert

CREAZIONI IBRIDE: UN UOMO MINERALE, UNA PIETRA ANIMALE, UNA BESTIA UMANA, UN MORTO VIVENTE

La frase fantasmatica del lavoro di Papaioannou è qualcosa che ha a che fare con la musica, o meglio con un uso non verbale ma musicale della parola, che contiene la possibilità del linguaggio prima e dopo quest’ultimo. In questa indefinitezza tra la forma e la potenza, tra la parola e la musica, tra l’essere e il non essere, si trova questa “cosa” che viene mostrata sul palco di Ink, che pur non essendo viva assume innumerevoli forme: spasmo, rana, scimmia, polipo, creatura mezza uomo mezza animale marino, uomo ma silente, padre ma anche amante, figlio ma senza eredità. Siamo in una terra di nessuno dove è possibile vedere creazioni ibride tra l’umano, l’animale e il minerale, tra l’animato e l’inanimato. Si gioca a cavallo di linee di confine che continuamente vengono smentite, spostate, creando nuovi campi di possibilità.

Questo si vede bene in una delle scene finali della performance, in cui i due attori protagonisti si palleggiano una boccia piena per metà di acqua, facendola rotolare sul pavimento come fosse una palla da bowling. Il moto della boccia che ne risulta non è lineare, poiché l’acqua contenuta all’interno ha una forza propria, che reagisce al lancio con dei movimenti di risacca. Il risultato è che la boccia sembra dominata da due forze contrastanti: il moto impresso dal lancio per mano umana e l’effetto dell’acqua che al suo interno retroagisce a questo lancio. Il moto asincrono dell’acqua rende il movimento della boccia difficile da prevedere, essa comincia a muoversi come per volontà propria, slittando un po’ in avanti, un po’ all’indietro, come avesse preso vita. Così la linea di confine fra la vita e la non-vita si ripiega su se stessa disegnando nuove anse di possibilità.

Queste le immagini che dominano Ink, le linee di confine attorno a cui gioca il suo lavoro. D’altronde, già isolandole si fa un torto all’operazione che l’autore si era proposto di realizzare, perché si sta cercando di tradurre la musica in parola, di tradire le immagini in una storia. Bisognerebbe tacere, ogni tanto, senza affannarsi a ricostruire un sapere intorno a ciò che lo buca, bisognerebbe arrendersi alla musica e parlare per immagini, come Papaioannou sa fare. Fuori dalle forme, nelle parole musicali, prima di Dio, non dopo la sua morte, si ridisegna o si sfuma il confine fra animato e inanimato, si aprono nuove possibilità di vita che non esigono necessariamente organi interni, un cuore, dei vasi, forme di vita che non necessitano di tutte le cose umane che conosciamo, ma possono accontentarsi dei loro elementi minerali. Diventa possibile creare la vita “dal nulla”, come per la prima volta, come quel Dio del libro della Genesi che con un atto creativo sganciato da ogni sapere, «all’inizio, … fece… il cielo e la terra, … le erbe che producono seme e gli alberi da frutto, …. i mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, … le bestie selvatiche secondo la loro specie… e l’uomo … maschio e femmina».

Transverse Orientation. A piece for eight performers (2021). Ph: Julian Mommert

Bibliografia

Arminio, F., Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra, Chiarelettere, Milano, 2017.

Baricco, A., Quel che stavamo cercando. 33 frammenti, Feltrinelli, Milano, 2020.

Cronenberg, D., (regia di). Crimes of the Future, Canada Francia, Regno Unito, Grecia, 2022.

Lacan, J., Il Seminario. Libro XIX. … o peggio 1971-1972, Einaudi, Torino, 2020.

Lacan, J., Il Seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973, Einaudi, Torino, 2011.

Mierolo, G., (intervento di) in Lolli F. & Mundo E. (a cura di), L’atto. Vivere, parlare, analizzare. Lettera 7, quaderni di clinica e cultura psicoanalitica, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Manganelli, G., Una profonda invidia per al musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, L’orma, Roma, 2018.