La morte di Ivan Il’Ič
La vita di Ivan, a parte qualche trascurabile conflitto personale derivante da delusioni lavorative e piccoli conflitti coniugali scorre serena nella mondanità fatta di partite a carte con amici e colleghi, ricevimenti e la cura a tratti ossessiva che Ivan pone nell’arredare la nuova residenza in cui la famiglia si è da poco insediata.
È un uomo di quarantacinque anni quando, dopo un banale colpo al fianco, inizia ad accusare i primi sintomi della malattia che lo porterà nel giro di pochi mesi alla morte. Il colpo raggiunge Iván Il’íč poco dopo una promozione che rappresenta l’apice della sua carriera professionale e sociale. Possiamo immaginare che questo avanzamento di carriera sia probabilmente il traguardo più alto a cui Ivan possa aspirare; così come la cura di Ivan nella progettazione della casa e dei suoi arredi ci fa intuire che quella sarà la sua dimora definitiva, l’ultima.
Tutto quel che doveva essere fatto, è stato fatto. Ed è qui che comincia la discesa di Ivan, che avviene nel momento in cui non ci sarebbe stato altro a cui aspirare. È in questo preciso momento che il colpo lo raggiunge, ma saremmo già pronti a dimenticarcene, come farà lui di primo acchito; ma il corpo comincia a parlare un linguaggio misterioso attraverso sintomi che sfuggono ad una decifrazione medica: il corpo si separa da Ivan e dai suoi progetti lavorativi e domestici per seguire un proprio corso. Il messaggio che porta il corpo è: “Io soffro” e spinge il protagonista a notare e riconoscere per la prima volta la rete di falsità, di finzioni e superficialità nei rapporti che egli intrattiene con gli altri, a cominciare dalla propria famiglia.
Ivan non può dunque né nascondersi né affidarsi ad altri. Non trova né la comprensione né l’interesse verso la sua malattia, che ha qualcosa di sconveniente, chiassoso, e repellente per chi lo circonda. Di fatto, la situazione lo spinge a riflettere, per la prima volta, sul modo in cui ha condotto fino ad ora la sua vita.
“Come vivevo, come ho vissuto? Che senso ha la mia vita?” Ivan si percepisce al tempo stesso colpevole ed innocente.
Molti pazienti portano questa domanda, senza sapere che la domanda è questa perché nascosta tra le pieghe di altri discorsi, o dietro altri sintomi. L’apatia, la disillusione, la mancanza di desiderio. Molte volte, quando si rendono conto che il cuore della questione è proprio questa, il senso, il proprio senso, si sentono in colpa di porsi tali questioni, alla luce del fatto che “in fondo, non mi manca niente”. Proprio Come a Ivan. Cosa manca ad Ivan? Ha una posizione lavorativa rispettata, remunerata, una famiglia, la residenza che ha sempre sognato.
La risposta di Lacan è che la colpa ultima di cui può macchiarsi il soggetto è quella di aver ceduto di fronte al proprio desiderio.
La questione al centro di questo testo è la necessità di elaborare la questione della morte, per dare un senso alla propria vita. È un compito impervio a cui siamo chiamati tutti, e che personalmente mi sono trovata ad affrontare nel lavoro di gruppo con gli alcolisti.
La condizione essenziale per lavorare con i pazienti alcolisti è innanzitutto la loro astinenza. La seconda condizione essenziale, la presenza. La terza, a tempo debito, la parola.
Ma quanto vale la loro parola? Gli alcolisti a Trieste si dicono tra loro che “i xe truffaldini”. Omettono, minimizzano, imbrogliano sulle quantità. Quando una persona nuova arriva in gruppo e chiediamo quanto beve al giorno, moltiplichiamo almeno per tre la dose che ci comunica. L’alcolista nella maggior parte dei casi arriva in struttura inviato da altri: dal datore di lavoro, dalla polizia stradale, dai familiari. Lui non riconosce di avere un problema, anzi, sente di aver trovato la soluzione. La parola dell’alcolista è una parola bugiarda, perché la verità è poca cosa da sacrificare in cambio di una soluzione all’esistenza. La sostanza prende il posto della parola. La proposta dell’Alcologia è scambiare la sostanza con l’ascolto, e il gruppo crea una rete dove quella parola singolare possa essere ascoltata. “La tua parola finirà qui, non cadrà nel vuoto”: abbiamo una scommessa importante e ce la giochiamo in poco tempo.
In questo modo emergono la vergogna, l’amarezza, l’abbandono, i traumi, ma anche l’amicizia, l’amore in tutte le sue forme, la gratitudine, la speranza. Soprattutto la speranza. Il gruppo è anche il posto dove si impara a perdere qualcosa. In gruppo prima o poi qualcuno a cui tengono può andare in ricaduta, e quindi cambiare programma, o concludere il percorso, continuando il lavoro di gruppo al di fuori del servizio pubblico. Non c’è perdita se non c’è elaborazione della perdita. Prima potevano perdere il lavoro, o la famiglia, o la salute, senza quasi notarlo. Inizio e fine si intrecciano continuamente, si rincorrono: qualcuno viene dimesso, qualcuno arriva e deve essere accolto dal gruppo già formato: fare posto a qualcuno di nuovo e salutare chi va via lascia sempre una traccia nel gruppo, scrive una trama.
In Alcologia ho imparato a lavorare con la possibilità della morte. Per me, che un paziente potesse morire non era nell’orizzonte delle possibilità. Per quanto mi riguarda il legame e la parola rappresentavano un’opportunità di salvezza per tutti. La prima persona che ho perso è stato Vili, un paziente del mio gruppo. Era sparito da giorni, lasciando cellulare e portafoglio in casa. Probabilmente tutti in struttura avevano capito che si era suicidato, ma non io, l’ultima arrivata, per me di tutti gli scenari possibili, questo era l’unico impossibile. Quando me lo hanno detto, il dolore mi ha piegata in due. Oltre al dolore di aver perso una persona di una sensibilità rara, un caposaldo del gruppo, il mio terrore era che dopo questa morte, il gruppo si lacerasse. Avevamo fatto così tanta fatica per creare un riparo dalla morte, dall’orrore, uno spazio dove per far crescere i legami, le parole, che mi sono chiesta se il gruppo sarebbe sopravvissuto a tutto questo. A questo buco. La sedia vuota.
Quella sera dovevo condurre io il gruppo. Non ho voluto farmi sostituire. Mi sono aggrappata alle parole di una collega come un qualunque appiglio in mezzo a un nubifragio. Mi ha detto “Negli anni ho capito che la vita non è un’esperienza che fa per tutti”. Il giorno della morte di Vili erano tutti presenti. Sono venuti tutti.
Non ricordo bene cosa ci siamo detti. So che si è pianto ma si è anche riso nel ricordarlo. E so che, proprio in quel momento, ho pensato: “Sì, sopravviveremo anche a questo, finché possiamo dirlo a parole”. Non posso sapere cos’abbia rappresentato questa morte per ciascuno di loro; mi piace pensare che il fatto che uno sia venuto a mancare per davvero, sia stato un limite per tutti gli altri. So cos’è stato per me. Ho dovuto perdonare e lasciare andare, continuare a credere nella parola e nel gruppo, nonostante la perdita, o proprio per la perdita. Lavorare anche per chi si è perso durante il cammino.
Continuo a credere, nel legame e nella parola. Quello che emerge in questi gruppi è la solitudine estrema, una mancanza viscerale che si era tentato di occludere attraverso la sostanza. Parlo di questo, oggi, perché non penso che sia qualcosa che caratterizza solo gli alcolisti. La mancanza ad essere caratterizza ognuno di noi, e si può occludere in tanti modi, non solo con la sostanza, lo si può fare con il cibo, con il lavoro, anche con il niente. Io, attraverso questo lavoro ho potuto assistere al miracolo della parola che salva una vita. Ci sono parole che fanno rivivere, frasi che hanno salvato persone, parole dette e ascoltate che risvegliano, rappresentano una chiamata alla vita, Kum!
È vero che gli alcolisti rischiano di morire, ma rischiano anche di non morire e diventare dei morti viventi, e questo non capita solo a loro, capita a tutti noi quando ci rifiutiamo di produrre un discorso nostro, quando smettiamo di condividere con l’altro qualcosa di vero, qualcosa che ci riguarda. “Si scopre sempre troppo tardi che la meraviglia è nell’istante”, scrive Marie de Hennezel, psicoanalista che lavora con i malati terminali a Parigi. Personalmente, la meraviglia la ritrovo in quell’istante in cui la parola “apre”, si sgancia dalla ripetizione e, finalmente liberata, produce qualcosa di nuovo. È un momento sospeso in cui il tempo si dilata e lì sì, sento che qualcosa non muore, che ci sopravviverà.
Questo intervento è stato presentato il 16 ottobre 2022 nell’ambito del Kum Festival dedicato al fine vita, in cui mi era stato chiesto di analizzare i risvolti psicoanalitici nell’opera di Lev Tolstoj “La morte di Ivan Il’Ič”.
Bibliografia:
De Hennezel M., La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 2013.
Freud S., Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, Edizioni Studio tesi, Roma 1999.
Jullien F., La vera vita, Edizioni Laterza, Roma 2021.
Lacan J., Il seminario. Libro X. L'angoscia 1962-1963, Biblioteca Einaudi, Torino 2007.
Tolstoj L., La morte di Ivan Il’ič - Tre morti, Adelphi, Milano 2021.