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"Chi come me" di Roy Chen. Uno spettacolo che sa di verità

Bordo di un letto di fianco ad un muro di mattoni

Lo spettacolo

"Chi come me" di Roy Chen, scrittore e drammaturgo israeliano, andato in scena al Franco Parenti di Milano in due repliche nel 2024 da aprile a maggio e da ottobre a dicembre, con la regia di Andrée Ruth Shammah.

Il testo di Chen nasce dall’incontro dell’autore con il personale medico e alcuni ragazzi con diagnosi psichiatriche ospiti di un centro di salute mentale per minori di Tel Aviv, quando Chen fu invitato a partecipare a lezioni di teatro proposte ai ragazzi con obiettivi terapeutici. Lo spettacolo riproduce sulla scena l’esperienza dell’autore. Chi come me trasmette l’impressione che l’intensità del flusso lirico della rappresentazione teatrale rompa il proprio argine, per esondare oltre la cornice evocativa della “messa in scena”. Un merito della potenza dell’espressione teatrale, della scenografia illuminata di Polina Adamov e della bravura dell’equipe in scena che l’entusiasmo del pubblico non manca ad ogni replica di riconoscere e che già molte recensioni hanno sensibilmente celebrato: “Più che una messa in scena, una messa in vita.”

Nella realizzazione del testo di Chen diretta dalla regia della Shammah la scena teatrale rompe la cornice canonica della rappresentazione, scardinando la dimensione fittizia che uno spettatore si attende accomodandosi in una sala buia davanti ad un palcoscenico illuminato: di là la finzione, di qua la realtà. Di qua Noi, il pubblico, di là Voi, gli attori. In questo setting allo spettatore può accadere di accorgersi che seduto accanto al letto di un ragazzo ricoverato si trova – senza idea del perché – eppure si trova nel posto giusto. La giornalista Rachel Aviv nel testo Stranieri a noi stessi sintetizza in termini essenziali l’esperienza peculiare dell’incontro qui (ri)generata: È stupefacente accorgersi di quanto poco basterebbe per vivere, o per sfiorare, vite radicalmente diverse. Questo spettacolo ci fa accorgere: in questo accorgerci risiede qualcosa di stupefacente che pertiene la dimensione etica dell’incontro con l’altro. Il suo effetto oltrepassa il tema della permeabilità dei confini dell’io dello spettatore, catturato nella scena in un’esperienza di rispecchiamento con l’altro: con l’adolescente, l’adulto, il terapeuta, il genitore che, come loro, anche noi siamo. Oltre a questo, l’esperienza di Chi come me apre davanti a noi l’ineludibile incontro con un’altra scena: l’emergenza pandemica della sofferenza psichica degli adolescenti, realtà tragica della clinica psichiatrica che da tempo accende anche il dibattito pubblico. La forza vitale dell’incontro che l’arte realizza in questo spettacolo suggerisce una sovversione etica dei canoni contemporanei dominanti dell’inquadramento nosografico del disagio mentale. La forza di un testo composto dal grido delle domande, delle parole e dei canti dei ragazzi “malati” e dalle risposte di dichiarata impotenza degli adulti, qui assume la portata di un’invocazione sensibile e raffinata alla ripresa della logica della cura a partire dal legame sociale. Il testo di Chen messo in scena al Parenti risveglia le coscienze che incontrano le voci dei ragazzi ad accogliere l’eredità Basagliana per cui la follia non è qualcosa che non funziona nella mente di un malato da far aggiustare: è una possibilità sempre viva dell’umano che tutta la comunità è chiamata insieme ad ascoltare senza pregiudizi e senza paura.

Ruggire ai muri

Quello che mi ha fatto avere la forza e la voglia di fare che i muri durino al di là dello spettacolo”: così la regista direttrice del Parenti introduceva l’ultima replica della prima stagione a cui ho assistito nella nuova sala che con questo spettacolo ha scelto di inaugurare. “Io parlo ai muri” intitolava Lacan uno scritto in cui denunciava la solitudine del proprio insegnamento rivolto alla psichiatria, ma con un margine di dubbio fecondo rispetto alla speranza del lascito di un’eredità futura. I muri non ci parlano, non ci rispondono e ci nascondono alla vista ciò che c’è al di là. Ma forse potranno durare, custodendo una memoria preziosa che ci appartiene. Dunque, se “la messa in vita” prende in Chi come me il posto della “messa in scena” forse è perché questo spettacolo anima, di queste vite incarnate nelle voci degli attori, una dimensione eccedente quella immaginaria dello sguardo: cosa c’è oltre lo sguardo medicalizzante che reifica il malato nella sua disfunzionalità? Cosa c’è oltre la presunzione del sapere iperdiagnostico? C’è il valore unico della voce particolare di un soggetto. Valore inestimabile anche quando questa voce è un ruggito apparentemente incomprensibile eppure, come Ester ci insegna, per nulla insignificante.

Chi come me è dunque un canto corale di quello che spesso oggi manca alla cura per entrare davvero in scena nel panorama contemporaneo dei servizi di salute mentale. “Non ho voglia di essere normale: Genitori, insegnanti, e cari amici […] Vivete, sorridete, siate falsi e mentite e svegliatemi quando finirà la vita”. Il canto di Tamara, interprete del dolore di esistere e della sfiducia nella possibilità di essere ascoltata di tanti adolescenti come lei, mentre riproduce sulla scena teatrale l’esperienza spaesante della perdita d’identità soggettiva dei protagonisti nella fortezza vuota dell’etichetta diagnostica loro assegnata, produce nella medesima scena l’orizzonte di una risposta etica di cura all’emergenza in atto nella società contemporanea. Una risposta etica vuol dire, prima che una risposta specialistica standardizzata di trattamento, una risposta comunitaria di ascolto di un soggetto che soffre e che prova a raccontarci la sua storia per ritrovare, o se necessario reinventare, il suo nome proprio: “io mi chiamo Tom”. Tom non è evidentemente la terapia correttiva per Tamara della sua disforia di genere, è la testimonianza dell’atto di riconquista del soggetto della vita che prima di allora per lui era già finita. Chi come me prende le pastiglie / chi come me è rimasto in silenzio / chi come me si sente straniero nel proprio corpo / chi come me vuole morire: le parole di Tamara, Emanuel, Ester, Barak e Alma riportano viva in scena una necessaria deviazione dalla rotta correttiva della risposta psichiatrica, già da tempo denunciata da molti psichiatri oltre a Lacan: “Molto probabilmente e verosimilmente è di cura e non di terapia ciò di cui hanno bisogno i soggetti che stanno male e che sono stati confinati nella logica diagnostica della psichiatria medica […] La diagnosi psichiatrica non ha nulla a che fare con l’esperienza della persona diagnosticata. Di per sé è un processo di denominazione che separa lo psichiatra dalla sofferenza del paziente: non è un ponte che favorisce l’incontro ma una lama che lo rende impossibile.”

La scena in cui il professor Bauman mostra i fantasmi di colpa che lo infestano sotto il camice “come hai potuto!?” fa letteralmente tremare chi si è trovato dentro la stessa galleria di incubi, fronteggiando carichi di responsabilità di cura e tutela della fragilità talvolta umanamente inconcepibili. Oggi le politiche socio-sanitarie tendono ad erogare risposte di “contenimento” del disagio ormai già divenuto “emergenza psichiatrica in adolescenza”, risposte che favoriscono l’intasamento delle liste d’attesa per l’accesso a Comunità Terapeutiche, mettono in crisi i pronto soccorsi ed i reparti ospedalieri spesso non adeguatamente attrezzati per queste situazioni ed espongono al rischio elevato di burn out gli operatori coinvolti. Nessuno oggi pensa ragionevolmente che una risposta di contenimento (farmacologico o di contenzione meccanica, dove strettamente necessaria) possa risolvere la crisi in atto, quando è chiaro su tutti i fronti ormai che questo tipo di risposta questa crisi contribuisce ad alimentarla. Maud Mannoni, psicoanalista socialmente impegnata in Francia tra gli anni 60’ e 90’ nella progettazione di istituti d’accoglienza di situazioni di fragilità in età evolutiva, constatava già allora la gravità del problema dell’anestesia del desiderio dei giovani pazienti e dei loro curanti: “si tratta, in effetti, per questi ragazzi, non di ritrovare una lingua, ma di risvegliare una necessità di parola”. Credo che quanto scriveva la Mannoni oggi valga ancora, e valga tanto per i nostri giovani pazienti quanto per noi, per chi come me crede ancora nella possibilità di un’altra strada da percorrere abbracciando il sintomo condiviso di questa necessità di parola, riabilitando collettivamente il coraggio di esprimersi in un mo(n)do diverso. Sono quindi grata alla lezione etica dello spettacolo che nell’esperienza teatrale, attraverso il potente ruggito lanciato ad un pubblico senza frontiere, rianima la causa viva dell’inconscio. Se, come ci ha insegnato Lacan, l’inconscio è una “causa persa”, traumatica, enigmatica ed illeggibile fuori dalla dimensione reale dell’incontro, la nostra causa persa qui è finalmente entrata in scena:

“Ed è la sola possibilità che abbiamo di vincerla.”

Bibliografia

Aviv R., Stranieri a noi stessi, Iperborea ed., Milano, 2023.

Chiappori S., Il sensibile richiamo di Chi come me. Una “messa in vita” che parla al cuore, in La Repubblica, Milano ed., 27 ottobre 2024.

Lacan, J., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, pp. 123 e 125.

Mannoni M., Cosa manca alla verità per essere detta, Borla ed., Roma, 1993

Saraceno B., Gallio G, Diagnosi, “common language” e sistemi di valutazione nelle politiche di salute mentale, in Aut Aut. La psichiatria e il futuro della salute mentale, A cura di Colucci M., Vol. 357 (21-37), Il saggiatore ed., Milano, 2013.