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Distinguere gli scarti. Perdita e resto nell’opera di Roger Ballen

Opera di Roger Ballen

Roger Ballen nasce a New York nel 1950, padre avvocato, madre socia dell’agenzia fotografica Magnum. A tredici anni la sua prima macchina fotografica; inizia il suo percorso fotografico documentando il raduno di Woodstock e le proteste contro la guerra in Vietnam. Nel frattempo si laurea in psicologia a Berkeley. Inizia un lungo viaggio attraverso Asia ed Africa – fotograficamente documentato nel suo primo libro Boyhood del 1977 – fino ad arrivare in Sudafrica. Incontra Lynda, artista ed insegnante, che sposa nel 1980. Tornato negli Stati Uniti continua gli studi conseguendo un dottorato in geologia. Nel 1982 si trasferisce stabilmente a Johannesburg dove lavora come imprenditore minerario fino al 2010, per poi proseguire unicamente la sua attività di fotografo. La sua fotografia documentaria – che prende forma nell’arco di trent’anni – prima durante i viaggi e poi nell’esplorazione dei sobborghi e delle periferie di Johannesburg, ha le sembianze di un archetipico “romanzo documentario” concorde agli stilemi fotografici tipici della agenzia Magnum. Il bianco e nero nitidi, la luce diffusa e quasi sempre frontale, le scale dei grigi non compresse in contrasti troppo evidenti, l’estetica minimale ed elegante, i richiami alla precisione compositiva di Paul Strand ed al bilanciamento nella scelta dei soggetti e delle forme in linea con “l’attimo decisivo” postulato da Cartier Bresson. Una restituzione fotografica della condizione umana così come si presenta, che anima una dinamica dell’immagine che va dalla superficie verso l’interno. 

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Nel 2000 il fotografo, psicologo e geologo inizia a bussare alle porte delle abitazioni dei cosiddetti “outsider”, persone che vivono sui bordi ed ai bordi di Johannesburg. Queste persone gli aprono la porta, il fotografo entra, lo psicologo guarda e vede, il geologo scava. Al contrario, il movimento della fotografia di Ballen inverte il suo senso di avanzamento, inizia ad andare da dentro a fuori. E viene al mondo un teatro dell’assurdo, provocatorio, enigmatico e disturbante. Spettri di povertà e di violenza, i visi quasi scompaiono, non ci sono porte, finestre, non si vedono vie di uscita: un mondo ermetico ed entropico che si ripiega su sé stesso. Resta il caos: a detta del fotografo come una navigazione senza mappa, senza pianificazione, in un luogo strutturato a strati e pieno di segni. Graffiti, disegni, bambole, macchie, manichini, animali, corpi umani. Scarti. Il bianco e nero rimane sempre terso, la prevalente luce frontale diventa contrastata ed inesorabile, il formato delle immagini diventa quadrato, la precisione compositiva di Strand è ancora presente, il momento decisivo bressoniano anche, ma definito adesso dal fotografo secondo decisioni intuitive progressive, non da un prelievo di una porzione di realtà. I soggetti non sono più ritratti così come si presentano: l’intento dichiarato di Ballen è di dire e far dire partendo da “stati mentali”. I segni e le tracce, esteticamente risonanti nelle fotografie di Joel Peter Witkin e nell’Art Brut di Jean Dubuffet, nell’intenzione del fotografo desiderano trasformare il caos visuale in una coerenza interna tanto da diventarne la sua firma, arrivando a stabilire il concetto di “Ballenesque” in riferimento alla sua postura ed estetica fotografiche. 

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In questo spostamento prospettico potrebbe configurarsi l’opportunità di leggere le fotografie di Roger Ballen degli ultimi vent’anni come un’occasione di differenziazione degli scarti, come la possibilità di avere a che fare con ciò che buca la storia del romanzo documentario, con qualcosa che sfugge all’universalità del significante, interagendo visivamente con ciò che il significante dimentica e quindi tralascia. Nell’inversione di senso operata dal fotografo, risulterebbe forse possibile intravedere come gli scarti, le tracce, i segni possano diventare attivi, come possano diventare dei resti. Il movimento dalla superficie verso l’interno operata nella lettura di una fotografia documentaria assomiglierebbe ad un resto diurno, inteso come prelievo di una porzione di realtà destinato ad una sorta di cifratura nel processo primario. Il movimento dall’interno verso l’esterno nella lettura delle fotografie in stile “Ballenesque” potrebbe invece in qualche modo risultare assimilabile ad un resto notturno, nell’accezione attribuitagli da Elvio Fachinelli: “quella parte di scarto che, partendo dal sogno, dalla fantasia, dal desiderio, tende la realtà e risulta irriducibile allo stato esistente”. Ci sarebbe quindi qualcosa che ha a che fare con la realizzazione, con un modo possibile di declinazione del Reale attraverso una pratica simbolica (anche la fotografia può essere considerata come tale), qualcosa che provenendo dall’inconscio si muove verso la realtà. Gli scarti nelle immagini di Ballen appaiono inesorabilmente nell’ordine della perdita, portando però con loro una dimensione attiva delle tracce che per questo li può rendere resti. Allora anche qui potrebbe forse risuonare la domanda “cosa si può costruire a partire dagli scarti?”, si potrebbe tentare di distinguere tra gli scarti ed i resti, si potrebbe intuire la necessità nuova dopo la necessità della ripetizione, si potrebbe arrivare a dire che nei resti si possa sperare, che si possa sperare nei resti perché ci proteggono dalla volontà di potenza, perché in essi è distinguibile l’aggancio ad un senso possibile.

 

Bibliografia
Fachinelli, E., “Dov’è Lin Piao?”, L’Erba Voglio, n°7, settembre-ottobre 1972
Recalcati, M., Resti notturni. Figure del resto nell'esperienza psicoanalitica, Seminario Ali-Roma, 12 febbraio 2021
v. https://www.youtube.com/watch?v=DnbCas9qQ_8