Amare la psicoanalisi. Amare l’arte
Due pratiche simboliche a confronto.
Intervista a Massimo Recalcati
Una breve premessa: Stanze sul mare, il Blog delle Società cittadine dedicato all’incontro tra la psicoanalisi e l’arte nelle sue varie forme espressive, nasce sul solco dell’insegnamento di Massimo Recalcati e promuove un’“estetica psicoanalitica” implicata e non applicata all’arte, rispondendo al desiderio di una generativa connessione tra la psicoanalisi e la città, curando il legame con la sua vita artistica e culturale, con le sue istituzioni e con il suo eterogeneo divenire.
SC: Giunti al terzo anno di vita di Stanze sul mare, blog nonché progetto di ricerca e studio, innanzi tutto ti ringraziamo per questa preziosa occasione di dialogo che ci consente di meglio interrogare differenze e similitudini proprie a queste due pratiche di linguaggio.
Come tu hai avuto modo di evidenziare in diversi scritti, una differenza sostanziale, concerne il modo in cui l’arte incontra il Reale e il modo in cui lo incontra la psicoanalisi.
Ci aiuti, a mettere meglio a fuoco questo primo aspetto?
MR: Il punto di contatto tra la pratica dell’arte e quella della psicoanalisi consiste nel fatto che entrambe sono delle pratiche simboliche che però puntano a toccare il reale. Entrambe spingono il linguaggio verso i suoi limiti, verso il suo “centro esterno”, come si esprime Lacan. Si tratta di tendere in modo nuovo la formula con la quale Wittgenstein conclude il suo Tractatus. Non “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, ma “ciò di cui non si può parlare si deve provare a dire o a raffigurare”. È questo lo sforzo che approssima l’esperienza della psicoanalisi con quella dell’arte. È uno sforzo di poesia: come si può dire l’indicibile, come si può incontrare l’impossibile, come si può toccare ciò che sfugge al contatto. Il reale è infatti ciò che non può essere colonizzato dal linguaggio. Ma è anche il suo trauma.
VG: Molteplici gli aspetti da te sollevati nei tuoi testi dedicati all’arte e inesauribili le questioni che tali scritti continuano a produrre. Alla luce della riflessione che vede l’opera come prodotto del trattamento simbolico immaginario compiuto dal soggetto e della ricchezza che la sua implicazione può conferire alla psicoanalisi, quale fuoco, al contrario, può donare la psicoanalisi all’arte odierna?
MR: La pratica dell’arte non può essere ridotta al registro della comunicazione. Si tratta piuttosto di testimoniare una resistenza, un irriducibile. Lo diceva già Adorno nella sua teoria estetica: in ogni arte degna di questo modo qualcosa resiste. Non si lascia addomesticare, non si lascia spiegare, non si lascia nemmeno decifrare. In questo senso il compito dell’arte è custodire il segreto, il reale come impossibile, il suo urto traumatico.
SC: Sorrentino intervistato su È stata la mano di Dio, film autobiografico che affronta la scomparsa dei genitori, vissuta dal regista in giovane età, ricorda come il punto di fissazione traumatica riguardasse il non aver potuto vedere il corpo dei genitori, morti per una perdita di monossido di carbonio; evidenziando come, in seguito, sia stato proprio il cinema a fornirgli la possibilità di dare una rappresentazione a quella singolare e tragica esperienza di incontro con l’impossibile.
Mi ha ricordato Fachinelli, quando scrive di Lin Piao, il dirigente comunista cinese, presumibilmente ucciso da avversari di partito e misteriosamente scomparso. Interrogandosi su dove sia il corpo di Lin Piao, Fachinelli mette l’accento sul carattere singolare della vita; non pensi che in questo, l’esperienza artistica e quella psicoanalitica trovino un punto di connessione importante?
MR: Nella pratica della psicoanalisi e in quella dell’arte la verità non si declina mai all’universale. Quando Fachinelli si chiedeva dov’era finito il corpo di Lian Piao stava contestando una concezione della storia che nel nome della lotta di classe faceva scomparire la singolarità del soggetto. È quello che Hanna Arendt definisce come il nucleo più duro di ogni ideologia: fare prevalere l’idea universale sulla vita reale degli uomini. La verità della psicoanalisi e dell’arte è sempre una verità singolare, irriducibile all’universale. Ed è tale perché porta su di sé il marchio irriducibilmente singolare del trauma del reale, di ciò che ha sfaldato l’ordine canonico del linguaggio.
SC: “Ci danno la vita a cavallo di una tomba. Il giorno splende in un istante ed è subito notte.” Questa citazione di Samuel Beckett mi da il la per una domanda riguardante la tua prima opera teatrale, Amen, pubblicata nel 2022 da Feltrinelli, e andata in scena al Franco Parenti di Milano con la regia di Valter Malosti.
Amen, a partire da una narrazione autobiografica, tratta la condizione originaria dell’essere umano agli esordi della sua esistenza: la nascita. Esistenza in bilico tra la vita e la morte, come la forza del passo nella neve di un soldato stremato dalla guerra, nel romanzo di Mario Rigoni Stern. Non credi che l’opera d’arte, nella sua dimensione enigmatica, dica di una trovata dell’inconscio in risposta all’incontro con quella quota di Reale che ci espone inermi alla vita? Non tanto nella logica in cui è l’inconscio dell’artista a dover spiegare l’opera, bensì nella prospettiva che tu stesso ci hai indicato, che vede il mistero dell’opera come un modo dell’inconscio.
MR: Amen è stata la mia passe a cielo aperto. Si tratta di un testo che riassume il mio percorso analitico. In esso domina la lotta tra la vita e la morte, diastole e sistole, apertura e chiusura, il battito del cuore e il movimento del passo. Quello della sopravvivenza, dell’essere sempre in bilico tra la vita e la morte, è il significante che ha marchiato la mia esistenza sin dalla sua origine. L’opera d’arte spinge per un verso il linguaggio verso la sua catastrofe ma per un altro verso isola il suo resto, come direbbe il profeta Isaia, come un seme santo. Il silenzio, la negazione della vita, l’annichilimento, la morte non può essere l’ultima parola sulla vita. In ogni opera d’arte troviamo questo equilibrio difficile tra la spinta alla distruzione del linguaggio e la sua sopravvivenza residuale. È l’attrazione profonda che ho sempre provato verso Beckett o verso Parmiggiani. L’incenerimento della vita non coincide mai con la sua estinzione. Qualcosa resiste. L’opera d’arte testimonia questa resistenza.
SC: Woody Allen, in Manhattan, stilando una lista di ciò per cui vale la pena vivere, annovera le mele di Paul Cezanne. Puoi dirci almeno un film e tre opere, in ambito pittorico e/o letterario che hanno segnato la tua esistenza e di cui non potresti fare a meno?
MR: Be’, innanzitutto Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern che ho celebrato in Amen. Poi La nausea di Sartre e La strada di Cormac Mc Carthy. Per quello che riguarda le opere letterarie. Per le opere pittoriche i Sacchi di Burri, A lume spento di Claudio Parmiggiani e L’uovo di Kounellis. I film sono tanti ma se devo sceglierne uno ti direi, senza pensarci troppo, Schindler’s List di Spielberg.

OP: Per quanto riguarda la letteratura sappiamo che hai dedicato un libro al ritratto di Pasolini. L'apertura del testo la dedichi agli Scritti Corsari, alla "mutazione antropologica" pasoliniana, in cui la società dei consumi ha ben realizzato il fascismo, in quanto prepotenza del potere: il Nuovo fascismo è il totalitarismo del sistema dei consumi che avvia la metamorfosi del collettivo in massa anonima dei consumatori. Che risvolto ha avuto l'incontro del testo di Pasolini nella tua singolare lettura della clinica contemporanea?
MR: Tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del secolo scorso Pasolini, Lacan e Foucault, seguendo strade diverse avevano ridefinito il volto del potere. In gioco non era più il potere fascista che si manifestava come una repressione esercitata dall’alto ma come una attività pervasiva che non si limita a interdire la vita ma la plasma dando ad essa una forma adattata al sistema dei consumi. Nella sua analisi di quello che Lacan descrive come un nuovo padrone, ovvero del discorso del capitalista, Pasolini è ancora più preciso dello psicoanalista francese perché entra nel dettaglio delle mutazioni antropologiche che questo discorso promuove. Per esempio quelle che investono il desiderio e il corpo dei soggetti ma anche quelle che coinvolgono la possibilità di esercitare una critica al sistema di fronte ad un sistema che tende plasticamente ad inglobare la critica disattivandone la portata sovversiva e facendone una sua proprietà.
OP: Il tuo testo su Pasolini termina con un affondo su Teorema in cui l'ospite silenzioso incarna la figura dell'evento del desiderio; il suo messaggio trapassa il piano narcisistico delle maschere sociali dell'Io per far vibrare il piano etico del desiderio come evento, un accadimento nel mondo come manifestazione di una contraddizione o divisione interna, occasione che sovverte dall'interno i singoli soggetti individuali e collettivi, evento come possibilità di dare forma nuova alla vita. Ciò che scuote è l'incontro con l'eccedenza della trascendenza che non si lascia integrare in un ordine già conosciuto. Come ha toccato la tua formazione di psicoanalista?
MR: Nell’ospite misterioso di Teorema si incarna la figura di Gesù riletta da Pasolini come potenza sovversiva che destabilizza la riduzione borghese della religione ad un codice formale di comportamento. È un tema che ho ripreso in modo ampio nel mio lavoro sulle radici bibliche della psicoanalisi: l’ospite è incarnazione della dynamis del desiderio, della sua forza divampante. “Sono venuto a portare il fuoco, a fare divampare il fuoco sulla terra”, dice di sé Gesù. L’ordine stabilito del tran tran borghese viene traumatizzato dall’incontro con questo ospite. Nulla sarà come più prima. Pasolini non a caso riteneva che la psicoanalisi fosse una scienza di origini borghesi che però aveva scardinato profondamente ogni visione borghese della vita. Il mio incontro con Pasolini precede quello con la psicoanalisi. È stato un incontro i cui effetti non si sono mai esauriti. Innanzitutto la critica al nuovo potere, al tecno-fascismo, al conformismo della civiltà del benessere e ai suoi nuovi miti ha dato un nuovo respiro alla psicologia delle masse di Freud. Inoltre la testimonianza di una resistenza intellettuale al buon ordine, di una irritazione costante verso tutto ciò che è ideologia, una disperata difesa del carattere irriducibile della soggettività.
OP: L'ospite silenzioso in Teorema incarna anche il reale sentimento del sacro. La tua lettura della pedagogia pasoliniana sottolinea la colpa dei padri destinata a ricadere sui figli: sono i padri che non hanno saputo tutelare la dimensione religiosa del mondo, il miracolo continuo del suo evento; l'ospite silenzioso come figura del desiderio inconscio scuote, risveglia dando vita a una frattura con questa predestinazione. Quale dialettica tra l’esperienza religiosa del sacro e la vocazione sacra intrinseca all’opera d’arte?

MR: Ai miei occhi la vocazione sacra che ispira l’opera d’arte è quella di custodire il segreto, l’impossibile da dire, l’eccedenza del reale. Il nostro tempo, come direbbe appunto Pasolini, ha distrutto non tanto le religioni ma il sentimento stesso del sacro nel nome di un ideale assoluto di trasparenza, di chiarificazione. In Adorno e Horkheimer è un prodotto della dialettica dell’illuminismo. In Pasolini dell’affermazione incontrastata della società dei consumi. “Non avrai altro jeans al di fuori di me” è uno slogan pubblicitario che rivela il declino inesorabile non tanto delle religioni – le guerre che dominano ancora nel nostro tempo sono tutte guerre di religione – ma della possibilità di incontrare lo splendore del mondo, il miracolo della sua esistenza
VG: Se come asserito da Perniola siamo oggi al cospetto di un’arte espansa, straordinariamente prolifica e allo stesso tempo a rischio di svuotamento sterile e diffuso, dove la psicoanalisi oggi può guardare in virtù di un rilancio e dunque di una feconda implicazione?
MR: La mia impressione è che l’arte contemporanea si sia polarizzata in due sintomi prevalenti. Quello psicotico, come direbbe Perniola, che fa dell’ostentazione e dell’esibizione del reale informe e terrificante la sua cifra ultima, e quello nevrotico ossessivo, che disossa l’opera da ogni riferimento al reale facendola evaporare nella tautologia, nel gioco concettuale o in un ornamentalismo minimalista come esito solo diuretico della grande stagione dell’astrattismo. In un caso abbiamo una forza che non guadagna alcuna forma e nell’altro una forma senza alcuna forza. La psicoanalisi insegna che la creazione artistica dovrebbe invece mantenere legate tra loro la forza – la spinta della pulsione – con la forma – la sua necessaria sublimazione.
VG: L’estetica del vuoto, anamorfica e della lettera: tre poetiche duttili in una reciproca e costante tensione. Ad oggi, alla luce dei profondi mutamenti della clinica e dell’arte stessa, vedresti possibile, nell’implicazione della psicoanalisi all’arte, contemplare ulteriori orizzonti esplorativi? Se sì, quali?
MR: le tre estetiche che tu evochi sono l’esito della mia lettura del pensiero di Lacan sull’arte. Il vuoto custodisce l’idea che il reale nell’arte assuma la cifra dell’irraffigurabile. L’anamorfosi implica l’idea che l’opera sia il luogo di una tyche, di un incontro che spiazza, sbalestra, mette sottosopra il rapporto consueto e abitudinario con la realtà. L’opera d’arte è l’esito di un taglio che il reale anamorfico opera sulla cornice stabile della realtà. La lettera indica invece il nesso che unisce l’opera al marchio singolare, al trauma da cui questa singolarità si genera. Direi che ce n’è abbastanza…
SC: Un’ultima domanda, richiamando una citazione di Bernardo Bertolucci. Questo maestro del cinema, parlando del suo rapporto con il cinema e del rapporto che lo legava a questa arte come a un’ossessione, afferma: “tutto sembra così chiaro, eppure ancora, dopo tanti anni, dopo tanti film, qualcosa resta inafferrabile: il mistero del cinema”.
Potresti dire lo stesso? C’è, per cosi dire, un mistero che ti lega alla psicoanalisi?
MR: Mi colpisce sempre nell’esercizio della psicoanalisi quanto sia l’incontro con il proprio desiderio a rendere possibile dei cambi di direzione impensabili nella propria vita… come questo incontro sia il vero incontro che lo psicoanalista attiva. L’appuntamento con un analista è sempre l’appuntamento con il proprio desiderio.

Bibliografia
Anselm Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano, 2020
Bernardo Bertolucci, Il mistero del cinema, La nave di Teseo, Milano 2021
Enrico Cerasuolo, La passione di Anna Magnani, Documentario, Italia, 2019
Elvio Facchinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi Edizioni, Milano, 2010
Gilles Deleuze (a cura di A. Moscati), Che cos’è l’atto di creazione, Cronopio, 2009, pag. 61
Mario Perniola, L’arte espansa, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2015
Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, Milano, 2007
Massimo Recalcati, Amen, Einaudi, Milano, 2022
Massimo Recalcati, “La pratica dell’arte alla luce della psicoanalisi”, in Sublimazione, sintomo, creazione, Mimesis, Milano, 2016
Massimo Recalcati, Pasolini. Il fantasma dell’origine, Feltrinelli, Milano, 2022
Samuel Beckett, Aspettando Godot, Einaudi, Milano, 1964