Resti. Figurazione del possibile nei “White Paintings” di Robert Rauschenberg
Nel 1951 Robert Rauschenberg dipinse i suoi controversi White Paintings. Le tele originarie – in parte distrutte o riutilizzate in seguito – consistevano in sei pannelli modulari in serie completamente bianchi e geometricamente uniformi. Il colore doveva essere omogeno e opaco, il piano privo di qualsiasi elemento narrativo e la superficie era caratterizzata da una tale neutralità che l’artista stesso dichiarò che poco importava se fosse stato lui o altri ad averle realizzate.
Seguendo il pensiero di Clement Greenberg, questi dipinti avrebbero dovuto rappresentare il punto di arrivo dello sviluppo modernista dell’arte nel processo di riduzione all’essenziale – circoscrivendo la propria area di competenza per rafforzare questa stessa -, e riprendere così lo storico ruolo giocato dal monocromo come grado zero della pittura. Le prime riflessioni da parte dell’artista sul proprio lavoro fanno eco in effetti, almeno in parte, al contesto storico evocato da Greenberg: emerge l’idea del processo di riduzione, il rifiuto della mimesi, della rappresentazione, dell’illusionismo tridimensionale, della traccia della mano dell’autore – dunque l’indifferenza per il riconoscimento dello stesso -, nonché il luogo comune del modernismo secondo il quale l’innovazione artistica procede per trasgressione e riformulazione delle regole convenzionali (Hopps, 1991). Non era di certo la prima volta che il monocromo entrava nella storia della pittura astratta, al contrario esso ne rappresenta sempre una delle declinazioni più efficaci. Vi è però una sorta di rimozione – tanto tra coloro che fanno parte della storia della pittura quanto tra quelli che la raccontano – della ricorrenza del monocromo nella storia dell’arte. Di conseguenza, paradossalmente, ogni sua apparizione suscita il timore che possa rappresentare la fine della pittura, la rinuncia a tutto ciò che la caratterizza. Il monocromo è il risultato di quest’operazione di rinuncia, di purificazione. Esso è ciò che resta della riduzione della pittura al suo grado zero, e ciò da cui il discorso su di essa non cessa in realtà di rilanciarsi e rinnovarsi. Un residuo che ritorna continuamente.
Tuttavia, nonostante l’entusiasmo dello stesso Rauschenberg per la radicalità delle proprie opere, qualche tempo dopo la loro esposizione arrivò una forte critica da parte dello stesso Greenberg (1967). Rauschenberg era andato “troppo oltre”, aveva superato il limite artistico, poiché la piattezza (flatness), la bidimensionalità propria della pittura moderna, non sarebbe dovuta mai diventare assoluta escludendo ogni forma di illusionismo ottico. L’artista era così sfociato in una pura negazione anarchica e arbitraria, se non nella gratuità del gesto dadaista.
Se infatti fino a quel momento il modernismo formalista aveva proposto una negazione “determinata” delle caratteristiche classiche della pittura – l’illusionismo, il chiaro scuro, la prospettiva -, tale operazione era stata fatta in funzione di un’autocritica (Riout, 2006). L’opera di Rauschenberg – appena distinguibile dalla parete su cui doveva essere collocata – al contrario era caduta, secondo Greenberg, in una pura negazione indeterminata, in un atteggiamento revivalista dello shock avant-guarde.
Ma se dell’avanguardia storica facevano parte l’estetica dello shock e della negazione, Rauschenberg rifiutò sempre la presenza di tali elementi nelle manifestazioni neo-dada e nella sua opera. D’altra parte, il ritorno cui si assiste con la neoavanguardia di alcuni elementi del primo Novecento si iscrive in una consapevolezza critica delle mutate condizioni artistiche e storiche (Foster, 1996). Ora il monocromo, residuo dell’operazione di negazione e allo stesso tempo sopravvivenza che ritorna nel tempo, apre a uno spazio di lavoro differente che mette in discussione non tanto ogni possibilità di senso, quanto piuttosto una significazione data e precostituita. Un atteggiamento per certi versi simile venne adottato anche dal compositore musicale John Cage, anch’egli insegnante al Black Mountain College in quegli anni. Influenzato dal buddismo Zen, Cage sosteneva la passività e una forma di “non composizione” in opposizione alla spinta all’ “azione” del lavoro artistico. Questo si tradusse per lui – fra il 1948 e 1951 – nella considerazione della musica non più basata sull’opposizione suono/silenzio, ma come un intreccio aleatorio di silenzio e suono/rumore ambientale. Esempio di tale concezione è 4’33’’ (1951), opera in cui il pianista David Tudor sedeva silenziosamente di fronte a un pianoforte invece di suonarlo, accogliendo suoni e rumori provenienti dal pubblico e dall’ambiente circostante. In linea con tale lavoro sono da intendere i commenti da parte di Cage dei White Paintings – lo stesso Rauschenberg ne riconobbe la validità -, definiti come «airports for the lights, shadows and particles» (Cage, 1961), pronti ad accogliere le sollecitazioni circostanti.
Possiamo dire infatti che è innanzitutto sulla superficie del quadro che si gioca l’operazione di Rauschenberg, sulla frontiera che segna lo scarto tra spazio artistico e spazio reale lungo un confine non definito: un punto in cui l’opera si significa. La riflessività della significazione sottolinea qui non tanto un’autoreferenzialità (nell’idea di un’arte che parla di se stessa attraverso i propri mezzi), quanto piuttosto una capacità significante della forma artistica (Focillon, 2013), pensata non più solamente come segno che sta per altro. Allo stesso tempo, questa specificità si struttura non solo o non più in base a delle dinamiche interne all’opera, ma attraverso le interazioni che lo spettatore intrattiene con questa. La riflessività dell’opera di fatto si stabilisce nell’incontro con il fuori. È messa in conto, nella ‘struttura’ pensata dall’artista, una potenzialità, la presenza di qualcosa di esterno/estraneo, teoricamente separato dallo spazio artistico, che lavora sull’oggetto stesso significandolo. Possiamo immaginare come, a seconda del modo in cui luci e ombre incontrano la tela, questa verrà esaltata o ulteriormente appiattita sulla parete alla quale è appesa. Nel contatto con la polvere sarà la sua opacità ad essere sottolineata, attraverso la formazione di uno strato che sottolinea la presenza dell’oggetto quadro, la sua esistenza in quanto tale e lo scorrere del tempo che esso a sua volta registra. La superficie/frontiera della tela, seppur bianca come la parete a cui il dipinto è appeso, diventa il luogo in cui l’opera esplicita la propria esistenza ontologica, una propria specificità non data una volta per tutte ma pensabile in relazione allo spazio circostante. D’altra parte, l’operazione di deposito della polvere sulla superficie rimanda inevitabilmente allo scorrere del tempo, a una temporalità non rappresentata simbolicamente, ma incarnata sull’opera stessa. La polvere, elemento materico sempre uguale a se stesso ma sempre differente, implica la compresenza di temporalità contrastanti: con la sua esistenza in un dato momento essa non fa che sottolineare la sopravvivenza e il ritorno di un resto che – quasi del tutto distrutto – apparteneva a un altro tempo. Il monocromo e la polvere sono – nella loro interazione – ciò che persiste, ciò che resiste alla cancellazione del tempo, ovvero una forma di esistenza che è dell’ordine della resistenza, della capacità di rimanere percettibile nonostante la cancellazione. La polvere ritorna e agisce su queste tele come operatore di trasformazione, rifacendo superficie. Possiamo pensare, in tal senso, questo monocromo come una sorta di superficie in gestazione; una superficie non data ma che si rifà continuamente, e allo stesso tempo una possibilità di origini multiple, in uno scarto sottile tra una “proto-superficie” e una superficie seconda. Verrebbe da chiedersi in tal senso se più che pensare la tela bianca “immacolata” come l’opera vera e propria, al contrario non sia messo in conto un perpetuo rifarsi e differenziarsi dell’opera attraverso l’incontro con il fuori. In opposizione alla concezione albertiana della pittura come finestra aperta su uno spazio illusionistico, queste opere creano uno spazio-matrice che moltiplica il senso e innesca una rete di associazioni a partire da un’operazione di contatto fra elementi diversi. Cage comprese probabilmente molto bene che la condizione in cui si trovava la pittura moderna non era tanto di un’autoreferenzialità tautologica, quanto piuttosto di una riflessività – «I White Paintings catturavano qualunque cosa cadesse su di loro» (Cage, op.cit., p. 108) – rispetto a ciò che solitamente rimane fuori dalla cornice artistica.
È in effetti al legame tra il musicista e Rauschenberg – consolidatosi a partire dal 1952 – cui bisogna fare riferimento per mettere a fuoco determinate questioni implicate nei White Paintings e vedervi l’apertura a nuove piste più che l’arrivo a un punto finale. In particolare, a partire dall’esperimento della camera anecoica ad Harvard del 1951, Cage si era scontrato con l’assenza di rumore esterno ma con la presenza del suono del proprio corpo (Joseph, 2000). A partire da tale condizione egli aveva concluso che il silenzio non corrispondeva alla totale assenza di suono, quanto piuttosto alla presenza di rumori non intenzionali. In questa differenza Cage rielaborava, in parte, l’idea del Niente di Henri Bergson ne L’Evoluzione Creatrice (Ivi, p.106); opera in cui il filosofo francese negava uno statuto ontologico al “nulla”, e rifletteva sul fatto che l’assenza di un dato elemento implica semplicemente la presenza di qualcos’altro. La critica della negazione di Bergson era riportata al piano musicale, per cui all’idea che non esista un vuoto assoluto in natura si lega quella del musicista per il quale il silenzio assoluto non ha realtà; così come, in maniera non dissimile, per Rauschenberg, una tela non è mai vuota. Questo intreccio tra la tela vuota e la composizione musicale silenziosa ha un ulteriore rimando al pensiero di Bergson e in particolare alla sua concezione della natura e della temporalità. La natura per il filosofo francese non è qualcosa di dato, finito o statico, ma al contrario un flusso continuo, processo di perpetua creazione e cambiamento; così come la durata implica un’incessante elaborazione e invenzione di forme. È in questo innanzitutto che la bianchezza della tela di Rauschenberg si discosta dalle concezioni della pittura monocroma del primo Novecento: la possibilità di lasciare spazio alla luce, ombre e particelle di polvere implica un’apertura alla durata bergsoniana di tipo differenziale. Questa struttura aperta dell’opera agli elementi ambientali mette in luce un’evidenza immanente immersa nella temporalità e nelle circostanze del mondo reale. In tal senso i White Paintings non costituiscono un grado zero della pittura, ma dimostrano al contrario che non esiste zero, in quanto questo in realtà presuppone sempre uno scarto, un residuo, un ritorno o uno spazio per qualcos’altro. Tali opere, aprendosi alle contingenze fugaci, mettono in gioco un paradigma estetico in cui la differenza è concepita come principio ontologico, come forza positiva e produttrice di senso. Questa condizione, che Branden Joseph definisce di instabilità, di non fissità semiotica, non vuole escludere necessariamente il senso dall’opera. Si tratta piuttosto di considerare la percezione in quanto produzione di senso e apertura a forze immanenti e differenziali. Un paradigma che si delinea non solo per la struttura dell’oggetto quadro, ma anche e soprattutto a partire dall’azione percettiva dell’osservatore che si interroga di fronte all’opera.
Costui è chiamato necessariamente a fare un lavoro di discernimento in funzione della sua percezione, ovvero in funzione della sua capacità di sottolineare l’infima differenza. Il venir meno di strumenti a priori per rapportarsi all’opera – come potevano essere i valori ottici puri del formalismo eretti a criteri di giudizio – costringe di volta in volta a ripensare un senso potenzialmente privo di verifiche o prove causali. Il rapporto che si instaura tra l’osservatore e l’opera allora non è di dominio della seconda da parte del primo, quanto piuttosto di uno scambio e di una reciproca alterazione. In questo ripensamento, l’assenza con cui ci si confronta richiede di andare al di là del visibile, ma non nel piano della trascendenza, quanto piuttosto verso ciò che è sintomo del visibile e assume una capacità di figurare, ovvero di agire. Tale assenza, silenziosa e assordante allo stesso tempo, incita a “continuare il discorso”, ci pone paradossalmente difronte a una dicibilità pura (Agamben, 2017) e diviene condizione del pensiero. Questa instabilità semiotica – in cui la ricerca di significazione è attraverso la ricezione- arriva in tal modo anche a mettere in discussione l’idea di una soggettività imperscrutabile o di una posizione stabile e predefinita. Essa favorisce al contrario l’implicazione di un soggetto che, nel tentativo di reperirsi nel quadro, si mette in discussione e si decostruisce. Tale concezione – che vede la condizione della percezione come ciò che rende possibile opere differenziali – esprime da una parte vicinanza alla fenomenologia di Merleau-Ponty (1988), nell’istaurazione di un rapporto non oppositivo tra visibile e invisibile; dall’altra prevede la singolarità dell’opera nella forma dell’evento, così come lo pensa Gilles Deleuze (1968). Possiamo dire dunque che è nell’evento, o nell’incidente, che prende avvio il racconto dei White Paintings. L’incidente è centrale, a tal proposito, nella sceneggiatura teatrale Arte che la drammaturga e scrittrice francese Yasmina Reza scrisse nel 1994. Il breve testo, a un passo dal teatro dell’assurdo e di un’ironia tagliente e straniante, racconta tre vite e tre forme di solitudine. Al centro vi è un rapporto di amicizia precaria che esplode davanti a un quadro totalmente bianco acquistato da uno dei tre. L’arrivo dell’opera suscita reazioni contrastanti, fra l’approvazione, lo scetticismo e il rifiuto. In un unico atto scandito da risate, offese e rivelazioni, l’opera apre a un precipitare degli eventi, costruisce uno spazio fragilissimo di incontro/scontro che sfida i rapporti tra i tre, rivelandone le sfumature. Sebbene sia un pretesto, è significativo il ruolo centrale che il quadro assume durante tutti i dialoghi; un ruolo che mostra quanto quella tela non parli tanto del suo autore, quanto piuttosto dello sforzo immenso di chi lo guarda. Emerge, di fronte all’assenza di qualcosa di dato a vedere, il tentativo di entrare nel quadro, di reperirsi e rendersi conto che è il soggetto stesso a colorare la tela bianca, a innescare una significazione potenzialmente sempre diversa. Se l’assenza totale disturba al punto che il rischio è l’esasperazione dei rapporti in un’angoscia dilagante, Reza esorcizza abilmente tale silenzio, dando la possibilità a uno dei personaggi di disegnare sulla tela «uno sciatore nell’attimo prima di sparire tra la neve». Ma la struttura differenziale dell’opera implica una critica della rappresentazione, un’apertura alla virtualità del visibile: il pennarello è cancellabile, la superficie si rifà e la tela torna bianca. Alla fine, di comune accordo, l’opera finisce per rappresentare un uomo che attraversa uno spazio e poi scompare.
Note
1. Nel 1950 Clement Greenberg teneva, al celebre Black Mountain College americano, i suoi corsi sul modernismo delle arti in quel momento portate a intraprendere, a suo parere, un esercizio di autocritica volto a eliminare ciò che apparteneva ad altre discipline artistiche, per arrivare a una definizione della propria specificità. In questa ottica la pittura, svincolandosi dall’illusione di uno spazio tridimensionale, poteva concentrarsi sulle caratteristiche del proprio medium, ovvero “la superficie piana, la forma del supporto, la proprietà del pigmento”. Queste, non più considerate come condizioni da dissimulare, diventavano criteri di appartenenza al Modernismo (cfr. Greenberg, 1960).
2. L’opacità così come era intesa da Louis Marin, ovvero il momento in cui l’opera si presenta rappresentando qualcosa. Potremmo ripensare qui tale concetto e considerarlo, nell’assenza di rappresentazione, come la presentabilità dell’oggetto quadro in quanto tale (Marin, 1994).
3. Tali questioni vengono riprese e approfondite in Joseph, 2007.
Bibliografia
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