L’orecchio, dice Lacan, è un orifizio sempre aperto. E nell’orecchio dello psicoanalista fa presa tutto, tranne il senso. Per questo, Lacan sostiene la relazione tra psicoanalisi e poesia, e chiede un po’ più di poesia agli psicoanalisti. Sono due mestieri, quello del poeta e dell’analista, che hanno bisogno di fare qualcosa del silenzio, e proprio per questo accettano di non trasformarlo mai in parola, accettano naturalmente, istintivamente, necessariamente quello che si può definire un matrimonio tra diversi: tra indicibile e dicibile. Quando una voce chiama nel deserto, entrambi i soggetti sono indispensabili sulla scena: la voce e il deserto. La parola e il silenzio. E sulla scena li vediamo assorbirsi l’un l’altro, compenetrarsi, confondersi, come spiegano bene (senza spiegare mai davvero) i versi di Eugenio Montale: “Se un’ombra scorgete, non è un’ombra ma quella son io.”
C’è un culto del silenzio che attraversa le religioni originarie e arriva come eredità all’arte e alla cultura moderne, un culto che circonda come un lago misterioso il tempio che abbiamo eretto per venerare la parola come fonte di sapere, come costruzione del senso, come strumento di salvezza nella fede, o nella scienza, o in entrambe. Nella cultura ebraica il silenzio è il linguaggio di ciò che non si può dire, che esprime il senso dell’ineffabile: Mosè Maimonide scrive “in qualunque cosa noi diciamo […] vedremmo anche qualcosa di manchevole.” Nell’induismo “gli stadi inferiori si apprendono nella parola, i superiori nel silenzio.” E nella tradizione islamica Gesù è un profeta silenzioso, così come Rumi, il più grande poeta della cultura islamica, è definito il “poeta del silenzio.” La fede che ha bisogno di passare attraverso la parola e di generare rito e liturgia resta ancorata all’idea di un silenzio che la supera in quanto a mistero. Nel tempo questo rapporto si fa ambivalente, come accade nella cultura cristiana: la Chiesa tratta con prudenza il silenzio e non lo ammette nei due riti essenziali (preghiera e confessione), ma dal cuore di quella stessa cristianità emergono i grandi campioni del silenzio, San Bernardo, San Benedetto, i mistici, la Chiesa d’Oriente.
Dunque, il silenzio non è interruzione o pausa della parola, ma linguaggio che ci è impossibile praticare, scarto della nostra stessa voce, grande inconscio che l’arte e la cultura laiche ereditano dal pensiero della fede. Cosa sarebbe, infatti, la poesia di Ungaretti senza il silenzio della pagina in cui si scrive? Come potremmo amare le opere di Giorgio Morandi se non fossero abitate da quell’intraducibile silenzio? Il Novecento europeo si carica sulle spalle questa relazione impossibile: Samuel Beckett, forse colui che ha frequentato con maggiore assiduità il confine con il silenzio, porta in scena Breath (respiro), un’opera di 35 secondi senza attori, senza copione, solo rifiuti, una luce che ci batte sopra, un grido, e poi un silenzio. Casimir Malevic, con il quadrato bianco su sfondo bianco del 1919, apre la strada a un’arte che ancora oggi allestisce grandi cattedrali di silenzio attorno a visitatori che guarda caso hanno la sensazione di ritrovarsi perdendovisi. E se proviamo anche solo per gioco a immaginare una parola in questi ambienti (una parola in più sulla pagina di Ungaretti, una parola tra le bottiglie di Morandi, sul palcoscenico di Beckett, negli spazi di Ballì), ecco scopriamo immediatamente che per lei non c’è posto. Come d’altronde non c’è spazio per alcuna musica o voce nella “accettazione di tutti i rumori esistenti” che John Cage crea per gli spettatori invitati a sedersi e ad aspettare un suono che non arriva mai.
Proprio un compositore, l’italiano Mario Brunello, violoncellista di fama mondiale, in un piccolo prezioso saggio immagina l’esistenza di tre differenti silenzi: il silenzio dell’ascolto e di chi chiede di essere ascoltato; il silenzio che vuole essere riempito di senso; e il silenzio assoluto, che sta attorno ai suoni e conduce al senso profondo. Brunello, così, ci riporta al pensiero dei mistici e ad un silenzio indicibile, di cui non possiamo dire l’esistenza ma che possiamo immaginare come assenza. Ed è questo un silenzio che illumina, alla maniera in cui un sole che noi non possiamo vedere, perché esterno ai confini del quadro, batte sui corpi e le pareti delle tele di Caravaggio rendendone possibile l’esistenza. Ed è il medesimo silenzio di cui scrive Reik, lo psicoanalista post-freudiano che per primo approfondisce il tema del tacere in analisi: “[il silenzio]” sostiene Reik “sembra impedire che determinate questioni vengano ignorate.” Non uno strumento che possiamo maneggiare e utilizzare per nascondere, dunque, ma un linguaggio indicibile che pure fa tutta questa luce su di noi.
Così, l’analista impara ad usare il silenzio, ed è giusto che lo faccia, ma senza dimenticare che quella che usa è solo una piccola, strumentale e irrisoria porzione del silenzio con cui ha maggiormente a che fare e con cui l’analizzante si trova a lavorare. Quando Cioran racconta della sua analisi e ci fa sorridere (“le ore più intense e più utili della mia vera analisi sono state le ore bianche, senza nessuna parola mia o sua. Il suo silenzio era così totale che avevo l’impressione, e a volte la certezza, che fosse andato via. Poi, dopo mezz’ora, sentivo il colpetto del suo indice che batteva contro la sigaretta, e mi sembrava persino di sentire la cenere cadere sul piattino. Dunque, era lì”) sa che il silenzio è molto più che un ferro del mestiere. Il silenzio è ciò che chi arriva in analisi non vuole, e che permette all’analista di non accettare il ruolo di soggetto supposto sapere, di tacere l’amore, e di mostrare l’impossibilità di ricondurre tutto a una trama significante. La stessa impossibilità che l’arte, la letteratura e la musica ci mostrano quando sono oneste.