Stare nel cuore delle cose. Intervista ad Alan Maglio
Alan Maglio (1979) è un artista che indaga temi legati al subconscio, alla memoria e al perturbante. Sviluppa la sua ricerca attraverso la fotografia e la manipolazione analogica di immagini d’archivio. Ha lavorato anche con il cinema come regista di “Milano Centrale – Stories from the Train Station” (2007), “Asmarina” (2015) e “Bar Ethiopia” (2021), film incentrati sul tema dell’identità̀ culturale di alcune comunità̀ africane in Italia. È autore, insieme a Luca Matarazzo e Salvatore Garzillo, del volume “Ultima Edizione. Storie nere dagli archivi de La Notte” (2019, Milieu Ed.), che dopo uno studio durato tre anni ha portato alla luce materiali fotografici inediti de “La Notte”, storico quotidiano italiano di cronaca. Il suo progetto di ricerca “Nuda proprietà̀” lo ha portato a fotografare gli interni di oltre mille appartamenti a Milano negli ultimi dieci anni. La sua serie “Ritratti africani” fa parte della collezione permanente del Mudec – Museo delle Culture di Milano. Il suo interesse principale rimane la creazione di nuove opere attraverso la reinterpretazione di immagini provenienti da archivi fotografici; da questo studio è nato il progetto “Stop Series”, iniziato nel 2019 e tuttora in costante sviluppo.
Ho avuto il piacere di incontrarlo personalmente e soddisfare le curiosità̀ che le sue opere/storie suscitano, dalla ricerca, al processo di cut-up, alla fotografia, al cinema, al giornalismo in un viaggio attraverso una dimensione ambigua, onirica, a volte inquietante ma estremamente affascinante e perturbante.
D: Cosa significa per te “fare arte”?
R: “Fare arte” per me significa stare nel cuore delle cose. Mi viene in mente l’assonanza, in inglese, tra le parole “art” e “heart”, arte e cuore. Penso al potente beneficio dell’attività̀ creativa, che può̀ incrociare il sentiero della cura stimolando il benessere psicofisico nella quotidianità̀. Si tratta di una pratica costante, più̀ che di un concetto. Certo, esistono artisti, correnti, filoni, esiste il sistema dell’arte, il suo mercato, il pubblico ma credo che il vero motore di tutto risieda nella relazione intima che un autore sviluppa nei confronti della propria pratica creativa, quel cuore pulsante che accende i processi artistici dall’interno. Se ci figuriamo l’individuo come fosse una pila di fogli, quello in cui è scritto il codice dell’atto creativo è il più̀ nascosto, quello che sta alla base, sotto tutti gli altri. Quando riesco ad avvicinarmi al cuore, allo “stare nell’arte”, la vita smette di girare a vuoto e tutto prende volume. L’attività̀ artistica ci proietta nella dimensione del “fare”, che per me è strettamente connessa alla pratica manuale, a un continuo lavoro di selezione, taglio, assemblaggio, rimontaggio degli elementi visivi che andranno a costituire l’opera.
D: Chi e cosa ha influenzato la tua ricerca?
R: La mia ricerca ha sempre trovato nutrimento in ambiti diversi. Quello delle arti visive è il più̀ evidente: cinema, fotografia e pittura sono una costante fonte d’ispirazione. Nell’ultimo periodo sono tornato ad approfondire l’opera di Claude Chabrol, un gigante che nell’arco della sua carriera ha diretto quasi sessanta film. Nei suoi intrighi noir il tema della famiglia e delle relazioni è spesso trattato in maniera brillante. Anche qualche incursione negli studi psicoanalitici mi ha offerto grandi risorse. Inizialmente ho trovato spunti importanti nel percorso junghiano, in seguito l’incontro con la pratica lacaniana ha acceso l’attenzione sul concetto freudiano di “perturbante”, che è diventato cruciale nel mio percorso artistico. Da lì, siccome ogni cosa ne rievoca un’altra, mi sono subito appassionato all’opera di E.T.A. Hoffmann, straordinario esponente del Romanticismo tedesco in letteratura. Le sue opere seminali sono attraversate da atmosfere inquietanti e sinistre, il bizzarro e l’onirico ritornano costantemente nei suoi Notturni, tra cui “L’uomo della sabbia”, il racconto da cui trae spunto il noto scritto di Freud “Das Unheimliche”. Vorrei infine citare un romanzo di genere, suggerendone la lettura in chiave psicanalitica: si tratta di Time and again (Indietro nel tempo nella versione italiana) di Jack Finney, una regressione nel tempo compiuta attraverso suggestioni indotte da fattori ambientali.
D: I significanti “archivio”, “impronta”, “taglio”, “resti” risuonano comuni anche al discorso psicoanalitico, come descriveresti questa immistione?
R: Quello dell’“archivio” per me è un tema portante, sono affascinato dalla possibilità̀ di risignificazione di “oggetti” orfani della loro funzione primigenia. I “resti” spesso si rivelano resistenti, cercano il percorso per riaffiorare alla vita. E attraverso una manipolazione virtuosa possono ritrovare una dimensione generativa. In questo senso mi piace pensare al percorso psicanalitico come a un atto creativo. Proviamo a immaginare un fantasioso parallelismo con l’ambito cinematografico: nella realizzazione di un film, il regista ha al suo fianco il montatore, con il quale edita, assembla, taglia, e rimonta le sequenze per trovare il filo della narrazione. La relazione che si instaura tra i due, quale che sia, di armonia o di conflitto, è fondamentale per dare forma all’opera. Il montatore siede con il regista di fronte allo schermo, e insieme i due fanno scorrere il girato, sbobinano l’audio, tagliano le riprese, trovano le inquadrature chiave. Ciò̀ che è rimasto impresso sulle bobine dell’inconscio, archiviato come impronta dell’esistenza sull’individuo, diviene un’opera composta attraverso i tagli che montatore e regista decidono di effettuare. Il risultato è frutto di scelte precise, per cui alcune scene restano al di qua ed altre al di là del “cut”.
D: Che rapporto c’è fra le tue opere ed il tuo percorso personale?
R: Le opere che realizzo sono strettamente connesse al mio percorso personale, dar loro una forma mi permette di indagare i luoghi del mio inconscio. Credo nella possibilità̀ di riutilizzare creativamente le zone d’ombra, i traumi, le parti un po’ più̀ oscure e problematiche. Questo mi permette di approcciarle in modo possibilmente virtuoso e, al contempo, di inquadrarle con un certo distacco, osservandole da qualche passo di distanza. Per questo la pratica è quella della separazione, del taglio, dello scavo, dell’estrapolazione di alcuni elementi. Un costante dipanare che anticipa la ricollocazione, l’approdo ad una nuova sistemazione. Il mare della transizione. Spesso mi ritrovo sommerso da “un mare di fogli”, oppure mi viene in mente l’espressione “avere un mare di idee” nella sua accezione più inquieta, quella che contiene la possibilità̀ del naufragio, del non vedere “terra”. Il mare è affascinante e sconfinato, da un lato incute un certo rispetto e richiede ai naviganti coraggio e allenamento. Ma quante scoperte si possono fare immergendosi fino a sfiorare i fondali! È possibile imbattersi in un archivio di informazioni preziose da riportare a galla.
D: “Nuda proprietà̀” è un termine tecnico che designa la vendita di un’abitazione ad un prezzo favorevole alla condizione di concederne il diritto esclusivo di utilizzo ai proprietari uscenti fino alla morte. Che tipo di relazione emotiva si può̀ sviluppare nei confronti di un luogo che rivela la transitorietà̀ dei meccanismi di appartenenza e possesso?
R: Una relazione onesta, se si ha il buonsenso di abbracciare il flusso del continuo divenire delle cose. I miei studi sono attraversati dal tentativo di indagare alcune pulsioni considerate non virtuose, impopolari, molto presenti nei rapporti sociali: gelosia, senso di possesso, voyeurismo, attaccamento eccessivo. Le immagini di interni di “Nuda Proprietà̀” costituiscono un campo chiuso ideale per sviluppare questi approfondimenti. L’abitazione è probabilmente il luogo più̀ intimo, quello in cui ognuno di noi è a contatto con i simulacri della propria storia personale o familiare. Ecco riaffiorare il tema dell’impronta: l’alone di una cornice rimossa dal muro, l’ombra del lampadario proiettata su un armadio, la polvere che periodicamente si deposita sulle mensole, tra i libri. La casa è uno spazio organico in cui le tracce si depositano da sé, al di là delle intenzioni di chi ci vive. Una sorta di spugna che è in grado di assorbire e stratificare gli elementi con cui viene a contatto, trattenendo a sé diverse energie di passaggio. Una collaborazione lavorativa iniziata accidentalmente mi ha permesso di poter entrare in oltre mille appartamenti a Milano, al fine di effettuare i rilievi fotografici. Dopo un po’ di tempo mi sono accorto del valore antropologico di questa operazione, e del fatto che poter ritornare su queste fotografie tra venti o trent’anni sarà̀ opportunità̀ per poter studiare il contesto sociale. Ne ho costituito un archivio perché́ sento che rappresentano uno spaccato della città vista attraverso gli interni. Ne faccio poi un utilizzo “ampliato”, attraverso l’innesto di elementi esterni, trasformandolo nel palcoscenico ideale per approfondire le tematiche di cui parlavo.
D: “Stop Series” prende forma attraverso la combinazione originale di immagini di interni o scene notturne “scattate” un decennio prima, introducendo a posteriori gli elementi visivi provenienti dalle stampe d’archivio in bianco e nero recuperate da ex agenzie fotografiche degli anni Sessanta e Settanta. Cosa rappresenta per te questo primo e secondo tempo?
R: Sono convinto che nei confronti di determinati contenuti sia possibile mantenere uno sguardo aperto, favorendone la continua rielaborazione. Non si tratta di non mettere mai il punto sulle cose, piuttosto di riuscire a mantenere un approccio che sappia rinnovare la luce con cui illuminiamo le stanze del mondo. Produciamo costantemente segni, attraverso le epoche e le differenti generazioni. Ci ritroviamo davanti a codici misteriosi, che possono aver perso il punto di contatto con il presente. Mi è capitato di imbattermi in interi scatoloni di stampe fotografiche destinate al macero perché́ avevano cessato di essere utili, dismesse dalle agenzie fotografiche che avevano chiuso i battenti. Esiste un “secondo tempo” per questi oggetti orfani, sganciato dalle intenzioni dei loro creatori? Ho provato a rispondere a questo interrogativo, allargando il raggio ai miei stessi scatti prodotti in altri periodi e con altre motivazioni. Cerco di sviluppare un percorso che rifletta sulla relazione tra memoria e oblio, da un punto di vista collettivo ma anche personale. Alienazione e obsolescenza possono essere avversari temibili se approcciati frontalmente. Ma forse è possibile aggirarli, guardandoli di traverso? Anziché́ escludere questi concetti, ho provato ad invitarli nel campo da gioco, mescolandoli con altri fattori, come la cocciuta resistenza delle tracce e dei resti. Come in un racconto noir, nel quale in un attimo il protagonista passa dal delirio di potenza che accompagna il crimine all’angoscia che lo abita durante il tentativo, spesso vano, di far scomparire tutti gli indizi.