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RILKE. BRODSKIJ. ORFEO

Parola poetica, ascolto analitico

Ermes, Euridice e Orfeo, copia romana da originale greco V sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli

La poesia, questa esitazione prolungata tra il suono e il senso.
Paul Valery

“Ascolto. Ascolto. Non ho alcun titolo per misurare il valore delle vite che da quasi quattro settenari ascolto confidarsi davanti a me. Io ascolto. E uno degli scopi del silenzio che costituisce la regola del mio ascolto è proprio quello di tacere l’amore”. Come custodire una ricezione etica ed estetica, dunque non letterale e non dogmatica, dell’indicazione contenuta nelle parole di Lacan? Una delle vie possibili è quella di allestire un campo di attenzione che mostri con riguardo la remota primazìa del lavoro poetico rispetto all’arte del “tacere l’amore”. 

Se la scena di cui ci occupiamo, infatti, è quella di un confidarsi, da vita a vita, attorno alle vicissitudini della pulsione e del lutto, quale altra postura dell’ascolto sarebbe più auspicabile se non quella testimoniata nella parola poetica? La poesia, se frequentata a lungo e nelle sue più alte epifanie, può educare l’orecchio umano a sintonizzarsi sul senso del tragico. E a riconoscere la differenza sostanziale che corre, nei modi dell’ascolto, tra diluvio empatico e pudore compassionevole, tra maschera ingessata della neutralità e capienza silente della partecipazione.

Accostiamo, dunque, una scena precisa e circoscritta del mito di Orfeo e una versione poetica di questa scena del mito, ovvero la poesia Orfeo. Euridice. Ermes scritta da Rainer Maria Rilke quando aveva ventinove anni, nel 1904; ci lasciamo guidare, in particolare, dal saggio che Iosif Brodskij dedica a questa poesia nel 1994 e che si intitola Novant’anni dopo

Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 – Montreaux, 1926) | Joseph Brodskij (Leningrado, 1940 – New York, 1996)

Brodskij ci segnala, infatti, qualcosa di essenziale sulla postura assunta dal poeta a fronte della scena destinale di Orfeo, una postura che si rivela al medesimo tempo coinvolta e astinente, una postura che “tace l’amore” per “disponibilità” e non per installazione identitaria.  

Il poemetto di Rilke, che Brodskij considera la lirica più importante del Novecento, condensa due momenti della vicenda di Orfeo: il momento della sua risalita dal sottomondo dove, con l’aiuto di Ermes e per un eccezionale favore degli dèi, spera di recuperare la sua Euridice; e il momento della scoperta, per Orfeo, che questa impresa di rendere Euridice non più morta e la perdita giammai avvenuta, è una impresa impossibile, fallimentare.  

L’ultimo fotogramma che nel mito fissa questo impossibile è, come sappiamo, il voltarsi di Orfeo: l’unico divieto che, secondo la concessione degli dèi, Orfeo avrebbe dovuto osservare – quello di non voltarsi mai a guardare Euridice durante la risalita dall’Ade – lui lo trasgredisce. Si volta.

A. Canova, Orfeo ed Euridice, 1775-76, particolare, Museo Correr, Venezia

L’insieme dei passaggi che la poesia di Rilke condensa – la risalita di Euridice e il fallimento di Orfeo – segna come poche altre scene nella storia del mito e della poesia, l’inesorabile della res amissa, lo statuto dell’oggetto come oggetto perduto e l’illuminazione, o la folgorazione, del soggetto che addiviene al cospetto di questa verità. Come scrive Brodskij abbiamo qui “un effetto che sottopone la propria causa a una lente di ingrandimento e ne rimane abbagliato”.

Potremmo guardare, dunque, al voltarsi di Orfeo come alla scena per eccellenza che un avveduto ascolto analitico può rendere costeggiabile proprio in virtù della singolare con-partecipazione in atto e che si caratterizza come l’accesso ad un momento di verità o come un lampeggiare, in più svolte e tornanti, di condivisi momenti di verità.

Ed è proprio la tragicità fulminea di questa scena, nello splendore asciutto con cui Rilke la evoca articolandola in parole, che può aiutarci a dire qualcosa, con la necessaria gravitas poetica, del “tacere l’amore” nell’esperienza analitica: una qualità della presenza di cui non v’è padronanza alcuna e che piuttosto si offre, se si offre, come il “capolavoro” dell’“ascoltare a proposito”, parafrasando il “vivere a proposito” di Montaigne. Se da un lato, infatti, possiamo custodire la stuporosa visitazione di una esperienza esitante del “tacere l’amore”, dall’altro lato rischiamo costantemente lo strazio di una sua applicazione pedante e ideologica. La grande poesia può aiutarci a prevenire questo rischio perché ci insegna a discernere sensibilmente l’atto poetico dalla procedura appropriativa, l’effetto poeta dall’auto-intitolazione lirica dell’io. E, dunque, deo concedente, ad incarnare l’ascolto analitico come un misterioso e non protocollabile dosaggio di suono e di silenzio. E di ritmo tra i due. 

Soffermandoci sul titolo della poesia di Rilke notiamo già alcune potenziali analogie tra parola poetica e ascolto analitico.  Un titolo freddo e impassibile, osserva Brodskij, per nulla enfatico e per nulla “decorativo”, ci dà la misura della distanza apparentemente presa da Rilke rispetto ad ogni personale “identificazione” e “coinvolgimento” nella vicenda di Orfeo. 

Il titolo, “spassionato”, è Orfeo. Euridice. Ermes
Dopo ogni nome umano c’è il punto: separatezza dei due amanti e nessuna enfasi sul melodramma. Soltanto dopo il nome di Ermes non c’è il punto fermo. Perché, scrive Brodskij, Ermes è un dio e “la punteggiatura appartiene alla provincia dei mortali”. Dunque, con il punto, Rilke associa Orfeo ed Euridice nella loro finitezza mentre “al dio viene lasciata la porta aperta” con un atto-poetico-linguistico di sottrazione.

Arte della punteggiatura e della sottrazione, dunque, ovvero rigore e apertura del poeta nelle varie sequenze della scena di cui si mantiene, mentre scrive, medium simbolico.

Brodskij ipotizza, nel suo saggio, che Rilke sia in realtà biograficamente coinvolto, nello scrivere questa poesia e nello scegliere questo mito, da una prepotente coincidenza emozionale e “contro-transferale” ma che egli rinunci, con grazia e perizia sconcertanti, ad ogni traccia di alterazione egoica dei versi che via via “si rivelano” nella e alla sua scrittura. 

E commentando la posizione tenuta dal poeta a fronte delle “forze che controllano il destino umano” e che il mito illumina, egli scrive:
“L’imparzialità di Rilke di fronte al suo materiale somiglia a quello delle forze stesse. Se a questo si aggiunge la naturale imprevedibilità di ogni parola che sta per inserirsi in un verso, il risultato è quasi un’affinità, per non dire parità, fra il poeta e quelle forze. Tutto ciò, in ogni caso, lo rende disponibile e attento alla loro autoespressione – che è quanto dire rivelazione”.

Cy Twombly, Orpheus, 1979, Collection Cy Twombly Foundation

Stare di fronte all’altro, stare di fronte alla sua scena di perdita “tacendo l’amore” non rimanda, dunque, proprio alla postura discreta e inappropriabile della poesia? Si tratta, in sostanza, del “nobile ritegno”, del greco aidos correntemente tradotto come “pudore”, di quell’avanzare ritraendosi che può fare da antidoto a due veleni contemporanei assai popolari: da un lato il volgare feticismo della “comunicazione”, dall’altro lato la difesa affettiva elevata a purismo dottrinale. Del fenomeno eccedente della poesia, ovvero di “quell’altra conoscenza” che nelle parole di Vittorio Tamaro “non prende la mira e non ha di mira niente” e che nelle parole di Jacques Lacan “tace l’amore”, si potrà forse fare esperienza ma giammai proclamarsi titolari. Perché, ci ricorda Mario Luzi, “il poeta è prima di ogni altra cosa uno che avverte come non sua la parola che usa ed è indotto a usarla solo per questo, perché essa gli sembra oscuramente implicata nel processo generale della vita”. 

Partitura spossessante, canto e ascolto, di cui infine Adolf Portmann ci offre una straordinaria metafora biologica quando rileva, sulle orme di Lorenz, che il canto degli uccelli finalizzato alla riproduzione e conservazione produce un suono stereotipato e rozzo mentre quello privo di scopo, assai più bello e melodioso, ha luogo quando il pettazzurro o il merlo se ne stanno quieti e rilassati a “poetare tra sé e sé”. 

Orfeo circondato dagli animali, mosaico romano, Museo Archeologico di Palermo

Riferimenti bibliografici
I. Brodskij, “Novant’anni dopo”, in Dolore e ragione, Adelphi Edizioni, Milano, 1998
J. Lacan, Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino, 2006; cfr M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, 2016, al paragrafo “Tacere l’amore”, pp. 462-468
M. Luzi, Vicissitudine e forma. Da Lucrezio a Montale il mistero della creazione poetica, Rizzoli, Milano,1974
M. de Montaigne, Saggi, 2 voll., Adelphi, Milano, 1966
A. Portmann, La forma degli animali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013
R.M. Rilke, Orfeo. Euridice. Ermes (1904) nella traduzione di Alberto Forti in I. Brodskij, Dolore e ragione, Adelphi Edizioni, Milano, 1998 e nella traduzione di Gaime Pintor in Poesie e prose di Rainer Maria Rilke, Einaudi, Torino, 1948
V. Tamaro, Il libro della celeste desistenza, Mimesis Edizioni, Milano, 2021