Fare luce. La poetica di Passi di Alfredo Pirri
«L’insorgere di una bellezza scandalosa e più potente costringe lo specchio a confessare qualcosa che cambia tutto. Quindi se non ci fosse stato un trauma che rompe la visione a cui siamo abituati, difficilmente quello strumento avrebbe fornito immagini non conosciute già»1. Alfredo Pirri in questo modo si riferisce allo specchio e più in generale all’opera d’arte facendo riferimento al suo aspetto ineluttabile e in definitiva profondamente tragico, che dal secolo scorso l’ha connotata.
In contrapposizione alle opere di cui è spesso protagonista l’arte contemporanea espressione del divertissement, dell’happening, dell’idolatria del nuovo, dell’arte con l’intento dell’intrattenimento, la poetica dell’opera in questione, dal nome Passi, si colloca sul lato opposto del fiume, ossia su quello che al senso sfugge, che non cede alle blandizie della comprensione immediata di un’opera che in qualche modo si svela al pubblico senza resti.
La poetica di Passi, nello specifico nell’installazione presente da oggi 22 febbraio alla Chiesa degli Artisti di Roma, per opera di Alfredo Pirri, va in questa seconda direzione.
Cosa avviene? L’artista depone una lastra di superficie specchiante al suolo, al centro della pianta ellittica, in opposizione geometrica al lucernario della cupola. In un secondo tempo lo infrange, lo rompe, lo calpesta, lo incide irreversibilmente, in seguito pone sopra di esso una semisfera trasparente che allo sguardo dell’osservatore appare come una sfera completa poiché riflettente il pavimento, elemento cruciale, infranto. Una semisfera sorta dalla rottura, resto luminoso di un lavoro di un taglio precedente.
L’opera passi è il dramma che l’uomo odierno attraversa, molti frammenti, molti tagli come lacrime, dirà Alfredo Jarr dell’opera di Pirri, le lacrime dell’artista che si trova al cospetto del dramma della morte, della finitudine, sguardo disincantato dove l’arte e la composizione nella loro nudità fanno da bordo, conferiscono forma a un qualcosa altrimenti inesprimibile.
L’essere umano “solo e senza scuse” dirà Sartre, “l’arte abbandonata” così nominata da Di Giacomo, “l’età dello smarrimento” appellata da Bollas, per dire di un soggetto contemporaneo disorientato dai conflitti mondiali e dalle guerre odierne, in un perenne stato di assenza di garanzia, come bene mostrò nel 2009 la croce prostrata senza Cristo di Jannis Kounellis dell’oratorio di San Lupo a Bergamo.
Tuttavia qualcosa è possibile. Come afferma Recalcati (2018) “la morte non può avere l’ultima parola sulla vita”. Dal frammento, dalle lacrime che si depongono, dallo strappo del velo è possibile che qualcosa venga generato, anzi, è proprio in virtù dello strappo e della sua resistenza contro la morte che l’opera diviene potente.
Come in altre opere la poetica di Alfredo Pirri è una poetica della luce. La luce trattata come materia viva, guizzante, rischiosa, tagliente. Una luce, e qui l’aspetto a mio avviso centrale dell’opera, non pacificante e regolata con il fine di un percepito armonioso, quindi ideale, piuttosto non prevista, inattesa, come un velo strappato appunto.
La figura a forma romboidale all’ingresso che accoglie il visitatore, credente, non credente, autoctono, passante, turista – e qui la grande potenza di quest’opera, ossia il luogo di passaggio in cui essa sorge – è coperto da un vetro infranto. Il vetro infranto testimone di un evento avvenuto, un passo è stato fatto, il nesso tra passato presente e futuro è subito intuibile. Quel nesso continuo che come la Scala di Giacobbe della Genesi (28:11-19) permette il collegamento tra cielo e terra, passaggio compiuto attraverso i Passi, continui e costanti dei visitatori. I passi che attraversano l’opera di Pirri sono passi in cui il soggetto attraversa il tempo, il tempo della vita e il tempo della morte, nel tempo della Quaresima, prossima alla Pasqua.
Il tempo della vita, da cui il soggetto odierno è profondamente marcato, non è il tempo in cui l’essere ha un carattere immutabile e imperituro, piuttosto il tempo della vita è connotato da una disarticolazione di questo essere, non da una continuità ma da una discontinuità, non da una previsione bensì da un imprevisto. La certezza della morte è inaggirabile.
L’opera in questione sembra trattare questa dialettica, ossia il vetro è infranto, qualcosa è andato in pezzi, tuttavia dalla rottura, in questo caso dell’ideale/superficie integra, la materia risponde in modo a sé stante; vi è una forza immanente all’interno che supera la mano dell’artista, supera la violenza dello strumento che la infrange, il vetro vive di vita propria. È assolutamente staccato sia dall’artista che dal concetto.
Leggiamo Hegel (2023):
«In ogni uomo vi è la luce e la vita. Egli non è semplicemente illuminato dalla luce come un corpo oscuro dotato solo di uno splendore riflesso, bensì è la sua propria materia infiammabile che prende fuoco. La fiamma è veramente la sua fiamma».
In opposizione all’estetica hegeliano-crociana in cui veniva rappresentato l’ideale della bella forma, in questo caso la materia sprigiona il suo stridore, emette un urlo, l’urlo del pianto, dell’artista, del visitatore, di Maria Maddalena che assiste alla crocifissione.
La mazza che brandisce i colpi altro non è che il martello che conficca il chiodo nei piedi e nelle mani di Cristo, colpo dopo colpo; la tensione con l’Assoluto in questa opera è centrale.
Dalla terra, come nella scala di Giacobbe (Genesi 28:11-19) appunto, sorge qualcosa, una semisfera trasparente che lo specchio è capace di raddoppiare, dunque un riflesso. Tra i cinque bozzetti preparatori uno tra tutti emerge: il disegno su fondo nero con al centro la sfera bianco latte.
La sfera al centro produce un effetto di macchia, una disarticolazione appunto, uno strappo con il contesto, un lampo di luce/evento improvvisa. Il tempo della Pasqua è un tempo di luce preceduto da un tempo di tenebra, di nero, di buio. Il fondo nero è il tempo del sepolcro, della morte, a seguire il tempo della luce, del Fare luce come indicato nella Torah, espressione dell’atto creatore di Dio che fa esistere la luce e con essa l’evento del mondo.
L’emergere della semisfera dal vetro infranto è un evento di amore. Ogni amore fa nascere un mondo. Come scrive Recalcati (2022): “ogni volta che l’amore viene al mondo è il mondo stesso che viene nuovamente alla luce”; “l’opera rinnova il mondo”2 afferma Pirri (2013).
Come nell’incontro amoroso tra due amanti nasce un nuovo mondo, cosi dalla superficie scalfita qualcosa viene generato, qualcosa di inatteso che scompagina l’ordine preesistente e ri-signfica il tutto. L’attimo della luce, l’attimo del Fare luce, è l’attimo dell’estasi.
- Testo di Alfredo Pirri sull’opera Passi, Cluj Napoca. Reperito da https://www.alfredopirri.com/passi-centrul-de-interes-cluj-napoca-3/.
- Testo per il catalogo della mostra “Punti di vista. Identità Conflitti, Mutamenti” a cura di Ludovico Pratesi e Fabio De Chirico presso il Museo Nazionale di Palazzo Arnone, Cosenza.
Bibliografia
Recalcati, M., Il Grande cretto di Gibellina, Magonza Editore, Arezzo, 2018.
Recalcati, M., La legge della parola, Einaudi, Torino, 2022, pag. 290.
Hegel, G.W.F., Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798), Diogene Multimedia, 2023.
Pirri, A., “Il vecchio e il nuovo”, nel catalogo della mostra Punti di vista. Identità Conflitti, Mutamenti a cura di Ludovico Pratesi e Fabio De Chirico presso il Museo Nazionale di Palazzo Arnone, Cosenza (https://www.alfredopirri.com/il-vecchio-e-il-nuovo-2013/).