Intervista a Maurizio Braucci. Martin Eden, il sapere alla prova del reale
Maurizio Braucci, scrittore, miglior sceneggiatore italiano del nostro tempo, interlocutore di registi come Pietro Marcello, Matteo Garrone, Abel Ferrara, Francesco Munzi, Leonardo di Costanzo. Il suo lavoro che ha attraversato il cinema italiano partecipando alla scrittura di alcuni dei film più rappresentativi dell’ultimo decennio è stato riconosciuto da numerosi premi: Orso D’Oro per la Paranza dei bambini, David di Donatello per la migliore sceneggiatura per Gomorra e Martin Eden, e ancora Nastro d’argento per Anime nere.
Docente di sceneggiatura presso la Civica Scuola di Cinema “Luchino Visconti”.
Fondatore del progetto teatrale “Arrevuoto” dedicato agli adolescenti delle periferie e del centro storico di Napoli.
È un privilegio poter conversare con te Maurizio sulla forza del cinema e su Martin Eden, film del 2019, tratto dall’omonimo romanzo con la regia di Pietro Marcello.
Truffaut ha detto: «i film vanno avanti come treni nella notte» o più precisamente nel suo celebre film Effetto notte, fa dire al regista Ferrand, suo alter ego:
“I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti, i film vanno avanti come treni nella notte.” Truffaut
È un’immagine potente da l’idea di una forza animata da un desiderio che non può essere fermato che procede oltre le avversità.
D: Che cos’è per te il cinema e che rapporto ha con l’impossibile, con quel reale irriducibile che nella vita non trova armonia?
R: Il cinema è come il sogno, è un dialogo tra inconsci, quelli degli autori con quelli del pubblico. Credo abbia la stessa valenza del rapporto tra il nostro inconscio e il reale, si basa sulla visione del film come dialogo interiore dello spettatore che lo riproduce nella sua mente mentre guarda. Io cerco di tenere conto di questo, anche come responsabilità di quanto scrivo per il cinema. Spesso nel reale cerchiamo delle verità, ma è chiaro che reale e verità sono categorie che non sempre coincidono anche se vengono confuse. Un film deve contenere qualche verità sulla vita per essere valido, possono essere verità scontate o rivelatrici, dipende dalla qualità della ricerca che sta alla base dell’opera. In tal senso, io cerco di lavorare in una direzione innovativa ma non sempre questo riesce perché bisogna poi mediare con le proprie capacità, con quelle del regista e con le possibilità offerte dallo stato dell’arte cinematografica. In sintesi, è più facile confermare allo spettatore il mondo così come gli appare e cercare invece di trovare dei punti di vista differenti. Credo che questo sia il rapporto col reale, un rapporto di possibilità e capacità a raccontare quel particolare ambito attraverso una storia.
“Essere uno psicoanalista è semplicemente aprire gli occhi a questa evidenza che non c’è niente di più pasticciato della realtà umana.” Jacques Lacan
D: E essere uno sceneggiatore.?
R: È anche una questione politica, lo sceneggiatore pesca dal mondo misterioso delle idee e le porta a galla nella speranza di mantenere la meraviglia che lui stesso ha provato nell’andare a fondo su quella questione. Questo se non è uno sceneggiatore che fa male il suo lavoro. Ma l’opera poi si colloca nella società e nelle sue regole estetiche e politiche. Bisogna vedere quanto resta di un lavoro fatto, anche se bene, agli occhi del pubblico, di quel pubblico in quel particolare tempo, a volte si forza la mano e si risulta troppo complessi e magari si viene apprezzati solo in seguito. Calcola che io mi muovo più nel cinema d’autore che, se ben inteso, è un cinema più sperimentale dove provi a portare avanti il limite delle possibilità espressive. Ma lo sceneggiatore lascia poi al regista (che a sua volta media con la produzione) quel particolare percorso. Alla fine bisogna vedere come va a finire quella ricerca iniziata e che giunge sullo schermo e nell’inconscio del pubblico.
“Bisogna sempre lasciare aperta una porta sul set”, nel senso che bisogna permettere all’imprevedibilità di entrare nel film”. Renoir
D: Cosa ne pensi di questa affermazione di Renoir grande maestro del cinema? I film sono delle storie che vengono concepite, elaborate e scritte in forma di sceneggiatura. Come si concilia questa irruzione della realtà con quanto è stato ideato prima?
R: le cose migliori dei film, i registi in particolare lo sanno, vengono da sopravvenienze che arricchiscono la storia che stai realizzando. A volte possono anche essere le peggiori, se l’evento imprevisto impatta con mentalità rigide o commerciali. Diciamo che questo adagio di Renoir è giusto quando c’è un approccio poetico come fu il suo.
Veniamo a Martin Eden di cui hai curato la sceneggiatura; archetipo del marinaio che diventa un acuto intellettuale e scrittore, interpretato da un Marinelli in stato di grazia. Il film è una trasposizione fedele al romanzo, tranne per l’ambientazione, che vede nel film Il marinaio Martin in Italia, a Napoli anziché in America, ad Oakland.
Il grande tema del romanzo e del film è l’emancipazione dell’individuo tramite la cultura, in una parabola che vede intrecciarsi la lotta di classe e la disillusione non solo verso la vita ma anche verso il mondo dell’arte e dell’industria culturale.
D: Come hai incontrato Martin Eden di Jack London e cosa ti ha mosso nella direzione di trattare queste tematiche in un film?
R: È il libro della mia adolescenza e poi di quella di Pietro Marcello. Una metafora dell’emancipazione sociale attraverso la cultura ma che poi ha una visione critica di questa cultura perché spesso non coincide più con la possibilità di emancipazione umana. La cultura come consumo, di massa o elitario, non è più uno strumento di liberazione della persona ma di oppressione e di conformismo. Il mio percorso è stato un po’ quello, amare la cultura ma poi sentirsene traditi quando vedi che è uno strumento nelle mani di chi esercita violenza verso il mondo.
È un film che può essere visto da diverse angolature, qui te ne propongo una che privilegia il rapporto del marinaio Martin con il sapere ma non nella sua dimensione salvifica, bensì nell’incontro con il volto tragico dell’impossibile.
Elvio Facchinelli nel descrivere l’esperienza di un momento meditativo in prossimità del mare scrive:
“Limito lo sguardo, allontano i viventi. Nello stesso tempo mi sento più vivo. Ora il mare è alternanza di lame di luce. Verità del detto di Ferenczi: non il mare è simbolo della madre, ma la madre del mare.” Elvio Facchinelli
Il mare di Facchinelli è il mare dell’“accoglimento” che caratterizza un’esperienza estatica nella sua dimensione vivificante.
In Martin Eden, in un primo tempo troviamo il mare come metafora marina dell’apertura alla vita, esperienza caratterizzata dalla spinta a conoscere nuovi mondi, spinta vitale che muove al desiderio di sapere, di acquisire nuove conoscenze e farle proprie inventando un proprio stile.
Ma c’è anche un altro mare, che incontriamo nel romanzo e nel film: è un mare che mette alla prova il soggetto, la cui onda diviene metafora dell’incontro con il limite del sapere, nella sua espressione di ingovernabilità. In psicoanalisi così come lo articola Lacan, il nome di questo impossibile è il registro logico del reale.
La fragilità del protagonista, si mostra nella debolezza troppo umana nel far proprio quanto si manifesta inassimilabile al sapere, nel suo intrinseco rapporto con l’essere, congiuntamente all’imporsi di una dimensione pulsionale distruttiva.
Metafora marina quest’ultima che ritroviamo per l’appunto in Martin Eden, laddove il riscatto sociale mediante la cultura, coronato anche dal successo, non determina la felicità del soggetto.
Al contrario, il protagonista sempre più solo nell’impossibilità di vivere legami soddisfacenti e generativi si ritrova trascinato nell’abisso del proprio nichilismo individuale.
In questa logica potremmo dire che Martin Eden nel dispiegarsi del suo percorso di emancipazione, non regge all’impatto con l’onda.
Al riguardo, eloquente è il finale del film che si chiude drammaticamente con un passaggio all’atto del protagonista, il quale non volendone più sapere della vita, fa del mare la sua tomba, scegliendo di uscire dalla scena del mondo. Jack London cosi descrive gli ultimi attimi di vita del protagonista:
“Da qualche parte, li in fondo, piombò nelle tenebre. Questo soltanto sapeva. Era piombato nelle tenebre. E nel momento in cui lo seppe smise di sapere.” Jack London
D: Sei d’accordo con questa lettura?
R: Molto interessante. Alcuni simboli hanno una valenza complessa, il mare, come dicono i marinai, è vita e morte insieme, dipende dal momento e dall’equipaggio. Devi sapere che quando abbiamo scritto la sceneggiatura, nell’adattare la storia in Italia, abbiamo capito che al contrario del mondo anglosassone noi non abbiamo una forte tradizione di letteratura marinara, piuttosto abbiamo quella contadina, della terra. Bisognerebbe riflettere su questo cambio di archetipi. Sicuramente l’immagine finale del film racconta di una scelta autodistruttiva del personaggio, culmine del suo nichilismo. C’era però un filosofo che faceva una differenza tra nichilismo attivo e nichilismo passivo, ad esempio il buddismo appartiene alla prima categoria: se niente è vero io creo la verità attraverso il percorso della mia vita, credendo in valori che affermano la vita e la complessità dell’universo. Ci muoviamo in ambiti molto vasti che solo la poesia può cercare di descrivere, e bada bene che ho usato la parola descrivere e non definire, che è tutta un’altra pratica, più vicina alla violenza e al conformismo se estremizzata.
Dunque il mare e Napoli, presenza intensa in Martin Eden, ed entrambi, per cosi dire coprotagonisti anche del tuo primo libro Il mare guasto uscito nel 2010.
In Il mare guasto, dei due protagonisti, il primo è un eroinomane invischiato in un rapporto distruttivo con la madre, e il secondo un astro nascente del suo clan, temuto e rispettato per la sua lucidità e spietatezza. Entrambi, risucchiati da un godimento totalizzante e mortifero, vivono un’esperienza di difficile/impossibile integrazione.
D: Quale pensi possano essere, le opportunità sociali per sostenere chi come individuo vuole riscattarsi, in realtà complesse come quella di Napoli e non solo..?
R: la comunità, come De Martino ci ha insegnato, ha un valore curativo per la persona (preferisco usare questo termine, l’altro, individuo, ha una connotazione logorata dalle filosofie novecentesche). Senza comunità siamo divisi e affidati solo alle nostre uniche capacità e possibilità. E’chiaro che il neoliberismo imperante distrugge o dà una connotazione in negativo della persona (competitiva, narcisistica, conformista) e paradossalmente Napoli si muove tra due estremi, quello della comunità ferita del passato e quella conformista e insicura del presente. Da una parte c’è l’arte di arrangiarsi che però da un certo punto in poi ti permette solo di esercitare un istinto di sopravvivenza, dall’altra c’è una modernità che non costituisce una reale alternativa umana vitale.
La questione riguarda non soltanto gli obiettivi (maggiore benessere ed eguaglianza sociale e istruzione e democrazia) ma gli strumenti per raggiungerli. In Italia abbiamo, ormai è noto, un problema di classe dirigente e politica, e al Sud questo è ancora più vero e Napoli ne è una grande metafora. Quindi con quali strumenti possiamo raggiungere questi obiettivi? A parte personalità di grande levatura (pensiamo all’Italia di Falcone e Borsellino contrapposta a quella di Berlusconi) non abbiamo nelle istituzioni gruppi e persone capaci di attivare dei cambiamenti positivi. Si tratta di rivoluzionare la cultura politica prevalente, che non è davvero democratica, e rivoluzionare la scuola (che già a Sud è un’altra scuola, meno efficace). Napoli dovrebbe ripensarsi come comunità, ridurre alcune sue megalomanie (che poi sono proprie dell’insicurezza sociale, un amico le ha definite “napologia”), correggere alcune distorsioni (senilità, incapacità delle culture femminili ad affermarsi, non valorizzazione dei giovani). Ma io credo molto di più in un cambiamento dal basso, di gruppi e movimenti, che esistono ma che non credono troppo in sé e non sono coalizzati. Come ha scritto il filosofo Enzo Traverso, se accadrà una sincronia tra i movimenti antagonisti globali, allora avremo un nuovo ’68. Io ci credo.
“La stoffa dei sogni è la stessa dei film. Il film hanno un potere di assoggettazione sullo spettatore, un po’ come avviene nei sogni.” Bernardo Bertolucci
D: Un’ultima domanda con cui ti propongo di concludere questa intervista., film come evento dell’inconscio?
R: ho risposto all’inizio a questa domanda, e in un recente film che ho co-sceneggiato per Mimmo Paladino, faccio dire a un personaggio “Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni. Ma di che materia sono fatti i sogni? Della stessa materia della vita!”. Credo come Lacan che l’inconscio non sia collocato dentro la persona ma nell’universo e che la vita sia la vera regista e sceneggiatrice di ogni cosa, con dei suoi misteriosi e preziosi funzionamenti che aprono la strada, anzi amano, l’imprevisto quando sa continuare la sua opera. E, in certo senso, l’imprevisto siamo noi, uomini e donne, tutti insieme su un pianeta.