Con il vostro irridente silenzio

ll 3 novembre è uscito per Feltrinelli il libro di Fabrizio Gifuni Con il vostro irridente silenzio, tratto dal suo lavoro teatrale dedicato alle lettere di Aldo Moro. Questa è la recensione che avevo scritto a caldo due anni fa dopo lo spettacolo, appena fuori dal Piccolo Teatro di Milano.
Moro, lasso al mio duolo*
Fabrizio Gifuni realizza un esperimento di teatro civile gettando in faccia al pubblico di oggi le lettere che Aldo Moro scrisse nella primavera del 1978. L’intento dichiarato è quello di capire se si tratti di materia ancora viva, capace di produrre reazioni, o se invece le parole di Moro, le sue invocazioni, si rivelino un corpo freddo e inerte, come giunte da una galassia troppo lontana.
E chi può darmi aita, ahi, che m’ancide
Il Presidente rapito chiede aiuto.
Perciò dai brigatisti carcerieri si fa dare carta e penna e scrive. A tutti: ai compagni di partito, ai membri del Governo e del Parlamento, alle più alte cariche dello Stato, agli amici, alla moglie, ai figli, ai nipoti.
Tante lettere.
Dapprima circospette, articolate, argomentate.
Poi più brevi, animate, concitate.
Infine deluse, astiose, testamentarie.
L’interprete Gifuni accompagna l’evoluzione degli stati d’animo del Presidente dando voce a un’ampia gamma di toni: dalla riservatezza al livore, dalle allusioni alla pignoleria, dalla formalità burocratica fino alle tenerezze più private e sussurrate.
E non vuol darmi aita
Una dopo l’altra le soluzioni che il Presidente aveva immaginato svaniscono.
Una dopo l’altra le porte cui ha voluto bussare restano mute e chiuse.
Proprio la Democrazia Cristiana, presa nel partito preso della fermezza, sarà il partito più rigido. Rigor mortis.
Le rimostranze di Moro sui diritti della propria famiglia vanno a infrangersi contro gli scogli della ragion di Stato, mentre i suoi argomenti sui precedenti storici e giuridici di scambi di prigionieri cozzano col debito morale contratto verso le famiglie degli agenti della scorta morti per difenderlo.
Questo debito, e la necessità di mostrare al mondo e ai terroristi la fermezza dell’Italia, sembrano esigere in quel momento un nuovo sacrificio.
Lo Stato ha già deciso: il Presidente della DC sarà il capro espiatorio. Questo è l’unico scambio che ha in mente lo Stato. Uno scambio arcaico. Tanto più efficace perché viene offerto, in sacrificio per tutti, il suo uomo migliore, il più importante, il “meno implicato”. Grazie a questo sommo sacrificio lo Stato guadagnerà statura internazionale e gli uomini che in quei giorni si trovano a rappresentarlo vorranno autopromuoversi a statisti.
O dolorosa sorte: chi dar vita mi può, ahi, mi dà morte
Chi ha già deciso non vuole che si apra una discussione su una possibile trattativa per salvare Moro. Soprattutto che non se ne discuta con lui, che non si affrontino gli argomenti che Moro avanza, che non si riconoscano come sue le lettere che vennero recapitate; lettere che vengono trattate come messaggi dei terroristi o come balbettii incomprensibili di un uomo trascinato al patibolo.
Un silenzio duro e irridente che Moro subisce e sente ingiusto. A quel silenzio egli contrappone il profluvio di parole scritte che ora conosciamo.
Il nostro contegno e rigore di allora, non erano, come credevamo, dignitosi, bensì solo spietati.
Anche noi, come i brigatisti, non abbiamo voluto guardare Moro negli occhi prima che venisse ucciso.
Quel silenzio irridente fu il cappuccio messo in testa al condannato a morte. Non fu un riguardo per lui ma per noi che assistemmo all’esecuzione; per non guardare in faccia il terrore, l’assurdo, il dolore e la nostra vergogna.
Così si spiega l’imbarazzo della Repubblica mascherato da ragion di Stato in quei lunghissimi 55 giorni. E così si spiega il nostro colpevole silenzio anche negli anni successivi, durante i ritrovamenti a singhiozzo delle carte di Moro.
Il silenzio di oggi è ancora quello tombale di allora.
Tante di quelle lettere non furono recapitate. Rimasero lettera morta, oltre che lettere di un morto. Solo che le dead letters sono oggetti pericolosi, come ben sa Bartleby, lo scrivano di Melville che ne ebbe sconvolta la mente, e come deve aver pensato anche chi ha tentato di murarle dietro un tramezzo di cartongesso.
Per questo il lavoro di Gifuni non serve solo a misurare la febbre alla nostra Repubblica, ma acquisisce una valenza e uno spessore più grandi, come era accaduto per L’affaire Moro di Sciascia, di cui questo spettacolo è il degno e naturale compagno.
Far ascoltare oggi la voce di Moro mentre scuote e attraversa il corpo di Fabrizio Gifuni è il contributo civile che può dare il teatro rendendo al Presidente della DC una postuma giustizia. La sua voce infatti ci cambierà.
*Moro, lasso al mio duolo. Dal VI libro dei madrigali a cinque voci di Gesualdo da Venosa (1611).