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Stanze sul mare.

Un blog di psicoanalisi e arte

Intervista a Letizia Battaglia. Una vita di corsa

Ad Ancona per la sua mostra Storie di strada, Letizia Battaglia scopre che qualche mese più tardi si sarebbe svolto il festival KUM! diretto da Massimo Recalcati. Mostra e festival si sarebbero incrociati alla Mole Vanvitelliana. La fotografa, quindi, esprime la volontà di partecipare al festival e mi chiede di farlo con lei. Preparo un testo introduttivo e le siedo accanto, come lei mi ha chiesto, ben sapendo che stare davanti a un pubblico con Letizia significa restare sulla soglia e lasciare che lei arrivi con la sua grande intensità. L’incontro si svolge il 17/10/2020 e non faccio nemmeno in tempo a leggere la mia introduzione che il fiume mi travolge. Oggi ne propongo il testo assieme a una riduzione dell’intervista, che può essere ascoltata per intero cliccando QUI.

 

Introduzione: chiudere gli occhi

La teoria dello sguardo di Lacan attraversa tutto il suo pensiero, a partire da Lo stadio dello specchio passando per l’incontro con il testo di Merleau-Ponty Il visibile e l’invisibile. Secondo Lacan, occhio e sguardo non coincidono. L’eccedenza dello sguardo rivela che l’occhio da solo non vede; vede perché ha un inconscio, vede a partire dalla propria cecità. Così come il punto cieco permette la visione perché in quel punto, sul fondo della retina, si raccolgono le fibre nervose di coni e bastoncelli che formano il nervo ottico, allo stesso modo la coscienza si costituisce intorno a un “punto cieco”: «Ciò che essa non vede, non lo vede per ragioni di principio, non lo vede perché è coscienza. Ciò che essa non vede è ciò che prepara la visione del resto».

Potremmo arrivare a dire che bisogna chiudere gli occhi per vedere.

Bisogna portare la dialettica speculare del “guardare – essere guardati” su un piano superiore, dove questa relazione immaginaria passa ad un livello simbolico che presuppone il desiderio e l’Altro già dall’inizio, diventando un “dare a vedere” e un “essere sorpreso dallo svelamento”.

Davanti al ritratto che Letizia Battaglia fa a Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani morto nella strage di Capaci, immagino Rosaria di fronte al quadro della propria vita, e immagino che se quella donna avesse gli occhi aperti, sarebbero stati occhi incendiari, avrebbero sputato fuoco. Rosaria sarebbe stata completamente oggetto della passione dell’odio per l’Altro che non ci protegge. Aveva bisogno di non usare gli occhi, ma di rovesciare in uno sguardo interiore un dolore che altrimenti avrebbe dato fuoco al mondo. 

Anche nella foto La bambina e il buio c’è un taglio di ombra e luce, un’onda luminosa emanata proprio a partire dal buio. Quali armi ha quella bambina contro il buio? – mi chiedo, sentendomi come lei immersa in quel campo di luce. 

È quello che Lacan chiama «effetto macchia»: di fronte all’opera d’arte siamo nel campo dello sguardo, inclusi in essa. Non è più la mia prospettiva a definire l’opera, ma il contrario: lei definisce me, io sono una macchia sulla sua superficie, non posso togliermi da lì. Questo mi perturba. Mi perturba perché dichiara la mia inconsistenza come soggetto e mi riporta al mio fondamentale essere oggetto di pulsione. La funzione macchia è propria delle vere opere d’arte.

La bambina e il buio ci riporta al nostro essere oggetto di una lucida passione. Il ritratto di Rosaria Costa ci mostra che possiamo vedere davvero quando abbiamo gli occhi chiusi. Le fotografie di Letizia si rivolgono sempre a chi le osserva come forme di rivelazione. Perciò spesso si sente dire che «toccano nel vivo». 

Una vita di corsa

Estratti dall’incontro con Letizia Battaglia

17/10/2020 festival KUM!


Perché, Letizia, questa urgenza di venire al Kum? 

Con la psicoanalisi esiste un rapporto. Quando avevo le crisi di angoscia, ero molto malata, mi portarono in Svizzera a Noy, dove degli imbecilli di specialisti dissero che avrei superato le crisi andando in una clinica privata per due anni. La verità è che non volevo portare avanti una vita senza significato. Incontrai un dottore di Palermo, si chiamava Francesco Corrao. Mi disse: «possiamo andare avanti», e iniziammo un’analisi, seduta, non distesa. A lui sarò grata per tutta la vita: bravo, spregiudicato, borghese molto severo. 

Dopo due anni e mezzo che facevo l’analisi, ebbi la necessità di scappare da Palermo e lui volle incontrare tutti: mia madre, mio padre, mio marito, mia sorella, e poi mi diede una busta con l’indirizzo di un famoso medico di Milano, e un’altra con una ricetta, ma lui non voleva che prendessi medicine. Disse: «se sta male a Milano». 

Io per amore suo non ho mai chiamato quel dottore né preso quelle medicine. Per un amore di riconoscenza: lui mi aveva portato ad essere una persona. Quindi, il mio primo rapporto con me stessa lo ebbi grazie a Francesco Corrao. 

L’analisi mi ha liberato da cedimenti orribili. Da cretinaggini. La mia inquietudine mi portò a fotografare l’ospedale psichiatrico. Gli amministratori di quel posto erano mascalzoni. Un malato costava 450 mila lire al giorno, non avevano sapone, carta igienica, asciugamani. Basaglia aveva già aperto gli ospedali, ma a Palermo c’erano 2.500 persone e non avevano ancora aperto. Ebbi questo rapporto stretto, intimo, meraviglioso con le schizofreniche. Continuo ad essere attratta dalle persone problematiche, c’è una sensibilità meravigliosa, che tocca il profondo. 

Questo festival ha un sottotitolo: curare, educare, governare. Tu ti sei presa cura, hai educato e hai governato come assessore di Leoluca Orlando e parlamentare siciliana.

Ero consigliera nei verdi quando Leoluca Orlando lasciò la Democrazia Cristiana, fece la Rete, fece una nuova giunta, sbatté fuori gli andreottiani. Io diventai assessore. Quelli sono stati i quattro anni più belli della mia vita, più di avere un amore, più di avere le figlie, perché avevo il potere di fare le cose per una Palermo schifosa, bistrattata, la mia parola aveva un senso diverso rispetto alla mia fotografia. Facemmo diverse cose, anche pericolose, dopodiché finì il mandato e mi candidai per la Regione e fui eletta. Quello fu il periodo più brutto, miserabile, volgare per l’anima, in mezzo a mascalzoni, a gente che non diceva la verità, tutta la politica era già programmata. Non feci niente, non servii a niente, mentre come assessore fui molto brava, più brava che come fotografa, solo che non rimane niente. Almeno come fotografa rimangono le mie fotografie.

Collego il titolo che hai scelto, “Una vita di corsa” a due immagini. La prima: tu bambina che corri in bici per le strade di Trieste, e che poi a Palermo interrompi bruscamente questo spirito di libertà.

A Villa Giulia a Trieste ero libera con la bicicletta a 10 anni con le gambettine sul manubrio correvo come una pazza. Poi tornai a Palermo e mi chiusero in casa. Ero andata a comprare qualcosa, il pane, il prezzemolo, e un signore si scoprì e mi seguì per la strada. Io andai a casa, non sapevo niente, oggi i bambini sanno un po’ di più. Lo dissi a mio padre e mia madre e mi chiusero in casa. Io persi la mia libertà per un mascalzone. Dopodiché, dopo tanti anni, scopro che fotografo sempre bambine di 10 anni con le occhiaie, con lo sguardo profondo, con la voglia di bellezza, con il sogno che va e che viene… Non so se sia stato più il pene che mi fece vedere, o la prigionia che mio padre mi impose, ma quel fatto fu uno spartiacque potente, cambiò tutta la mia vita. Tutta la mia vita è stata condizionata da quei 10 anni.

Pensando a queste storie, mi sono immaginata che le bambine che fotografi rappresentino la continua ricerca del tuo desiderio di libertà, il recupero di quel desiderio. Queste bambine sono Letizia, quindi, ma non sono Letizia quando era bambina, sono il desiderio di Letizia bambina.

Io credo che fotografassi me stessa. Ecco una piccola lezione di fotografia: un fotografo quando fotografa non deve fotografare solo il mondo, deve fotografare il mondo in rapporto a se stesso. E allora sono quelle fotografie che rimangono, che rimangono veramente perché senti che in quella fotografia c’è il vero fotografo. La fotografia deve avere qualcosa di più. 

La seconda immagine che collego al titolo: la morte di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo assassinato nel ‘79 dalla mafia. Il giornale vi chiamò: “correte!”. E io vedo la fotoreporter che corre fino a incontrare la scena cruenta e il trauma, vedo Letizia fotoreporter e bambina al tempo stesso che rincorre la propria libertà e incontra nuovamente un trauma in cui stavolta è lei a guardare.

Boris Giuliano fu un uomo che abbiamo amato molto. Allora gli sbirri non li amavamo. Io venivo da Milano, avevo frequentato il movimento studentesco: Dario Fo, Pasolini. Boris Giuliano non era uno sbirro, era capo della squadra mobile ma era molto moderno, molto gentile, molto buono, molto forte e un giorno era lì piccolo piccolo, buttato per terra dietro ad una cassa. Lo avevano ammazzato alle 8 del mattino. Per fortuna non ce lo fecero fotografare perché quel poliziotto così forte nella vita era finito così, non c’era. Non l’ho fotografato morto. Ho solo fotografato 3 ore dopo la sua scrivania povera, una piccola scrivania con i telefoni poveri, uno per il ministero. In quella scrivania c’era un mazzo di fiori bello. 

Io non ho scattato nemmeno per Falcone e per Borsellino. Non potevo più, non avevo più la forza. Dopo Falcone e Borsellino me ne andai in un posto terribile. Sono andata da sola in Groenlandia, con un vento tremendo. Non ci sono strade, niente automobili. Ci sono ghiacciai. Mi dissi che era un modo per ammazzarmi. Ero sola nel vento. Me ne ero andata di corsa, ma poi di corsa ritornai. Ritornai per Berlusconi. Io Palermo, che tanto mi ha fatto soffrire, non la voglio lasciare. 

In un’intervista di qualche tempo fa, a proposito del far chiudere gli occhi ai tuoi soggetti, hai detto:  “ho un segreto, è bene che rimanga dentro”. Se ti chiedessi di chiudere gli occhi, quali delle tue foto vedi?

È una invenzione: tu chiudi gli occhi e così immaginiamo la tua espressione. Io non sono una intellettuale, o una fotografa che programma tutto. Io non programmo niente, un po’ alla Cartier-Bresson. Solo ora che sto facendo le donne nude bisogna organizzare. Le donne sono bellissime anche senza esserlo. Porto avanti questo lavoro per un titolo: Palermo nuda. Voi immaginate un libro di donne di Palermo nude. Un tempo non potevamo pensare di fotografare le donne nude a Palermo, oggi invece arrivano anche con i mariti. È bellissimo. Ci vuole rispetto. È un atto politico.

In che rapporto sei con il tuo tempo oggi?

Ho dei problemi e sono stata a letto 15 giorno per venire qui da voi. 

Forse vorrei che qualcuno mi parlasse della mia vecchiaia. Io lo so che ho poco tempo davanti, però non è passata a 85 anni la voglia di godere la vita, di rispettarla, di amare ed essere amata. È una cosa di cui non si parla mai. Dicono che i vecchi hanno bisogno di aiuto, di sostegno, di protezione, ma i vecchi hanno bisogno come ne avevano a 20 anni di sostegno e di protezione. È come un obbligo essere vecchi, curvi e con lo sguardo che non aspetta più niente. Ma non possiamo togliere la bellezza dell’essere umano alle persone perché sono vecchie. Invece, gli togliamo l’autonomia di pensiero, i desideri. Io sono indipendente economicamente, vivo da sola, faccio quello che voglio, lavoro molto. Ma vedo le mie coetanee, i mariti che non le vogliono più perché le considerano carne e non anima. Questa parola che fa sobbalzare, esiste: abbiamo una psiche, delle profondità, e vogliamo viverle. Spesso gli uomini non ce l’hanno queste cose. Bisogna crescere insieme. Non capisco l’orribile privilegio che gli uomini hanno, di pagare e prendersi una ragazzina. È orribile che un uomo vada con una estranea, pagano per fare l’amore. Io faccio tutto quello che mi è possibile, con rispetto per il mio corpo che non è attraente, per ciò che posso me lo prendo e me lo faccio dare. Non sono innamorata, aspettavo Ferlinghetti ma è morto, mi piaceva per le poesie. Il vero fidanzato lo aspetto. 

C’è una poesia di Ferlinghetti: 

Vieni dormi con me e sii il mio amore
amore dormi con me
sdraiati con me
sotto il cipresso
nell’erba dolce
dove il vento giace
dove il vento muore
mentre la notte passa
vieni dormi con me
tutta la notte con me
e baciami fin che vuoi
e amami fin che vuoi
e lascia che le nostre anime si parlino
tutta la notte sotto il cipresso
senza fare l’amore