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Alejandra Pizarnik: estrarre la pietra della follia

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Eleonora Guglieri, Pizarnik (2024)

Alejandra Pizarnik nasce il 29 aprile 1936 ad Avellaneda, un suburbio di Buenos Aires, da genitori ebrei emigrati in Argentina per sfuggire alla Shoah, unici sopravvissuti delle rispettive famiglie. Alejandra, il cui nome di battesimo è Flora, frequenta insieme alla sorella maggiore sia una scuola locale che una scuola ebraica, sdoppiando dunque fin da subito la sua lingua tra l’yiddish e lo spagnolo. Anche il suo stesso nome si scompone in una serie di nomignoli - da Buma, cioè fiore, come veniva chiamata in casa, a Bimele, appellativo dei compagni della scuola ebraica, a Bicho, cioè bestiolina, come più tardi la chiamerà affettuosamente l’amico Julio Cortàzar – fino a darsi lei stessa un nuovo nome, all’incirca nel periodo adolescenziale in cui inizia la sua fervida produzione letteraria: Alejandra.

Quelli del linguaggio e della nominazione sono due temi che non smetteranno mai di fare ritorno negli scritti di Pizarnik, così come quelli del doppio e dello specchio.

Linguaggio, scrittura e nominazione

Nel 2022 è finalmente uscito anche in Italia, edito da La Noce D’oro, il primo volume dei diari di Alejandra (1954-1960), dal titolo Il ponte sognato. Fin dalle prime pagine si respira l’urgenza vitale dell’allora diciottenne di scrivere: “devo scrivere o morire”. La scrittura non è per Alejandra una passione, un interesse, ma un modo per tenersi insieme, per non sentirsi frammentata, per sopravvivere. “Persisto perché se non scrivo sono un essere frantumato”, “scrivere è cercare nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba”. Sembra quasi che le parole sul foglio siano per Alejandra una sorta di filo che sutura pezzi staccati, che unisce parti di corpo schizofreniche. “Le parole sono la mia assenza particolare”, sono un modo di nominarsi, un tentativo di “estrarre la pietra della follia. Non la pietra dalla follia”. In moltissime pagine dei diari emerge il desiderio della giovane Alejandra di scrivere un romanzo, come a voler mettere su carta una narrazione di sé e del mondo che appare, tuttavia, sempre più impossibile. Alla parola come trama sembra opporsi la parola come trauma; al desiderio di una tessitura narrativa dotata di senso si sostituisce l’istante poetico, l’incisione di una parola materica, di una parola-cosa – “nel mio caso le parole sono cose e le cose sono parole”. La parola, la scrittura, sono per Pizarnik un pharmakon che al tempo stesso salva e uccide. Se da un lato tentano di tenere insieme il suo essere in frammenti – “tutta la notte attendo che il mio linguaggio riesca a configurarmi” – dall’altro mostrano tutta la loro incapacità di fungere per davvero da sinthomo, di schermare Alejandra dal Reale che la invade, dal buco, dal suo troumatisme: “le parole non fanno l’amore, fanno l’assenza, se dico acqua berrò?”; parole che cadono e non riescono, nonostante il suo accanimento, a sostenerla. Si vede bene nella produzione letteraria di Pizarnik come il linguaggio comporti al tempo stesso una istituzione e, insieme, una destituzione del soggetto, o, per dirlo in termini lacaniani, come il simbolo apra la possibilità del desiderio soltanto a partire dall'uccisione della Cosa. Concetto, questo, che Alejandra esprime in una lettera inviata a un amico, nella quale scrive: “la mia sete di toccare, la mia sete animale è così grande che soffro molto (o troppo, se vi fosse una misura) per il semplice fatto di non potere, ad esempio, bere la parola 'acqua'”. Simbolo e Cosa non possono coesistere, dice Lacan, esistono solo uno in assenza dell'altro e questo è uno dei grandi tormenti di Alejandra, che vorrebbe invece riuscire a tenerli insieme: “bisogna ricoprire di poesia le fratture, le crepe, i buchi… tutto quello che convoca la presenza dell'assenza (o dell'assente)”. La poesia, le parole, le servono per coprire i buchi, la frammentazione, per alimentarsi delle cose – “bere la parola 'acqua'” – impastandole di godimento, di matericità, a discapito del loro valore di simbolo. L’impossibilità di trasformare le parole in cose, produce un passaggio della poesia da luogo di possibile nominazione a trappola, menzogna – “tutto ciò che si può dire è menzogna” – in cui “le parole abbandonano il palazzo del linguaggio” e dove “la solitudine è non poterla dire”.

Il doppio e lo specchio

Uno dei principali temi che ricorre sia nella produzione poetica che nelle lettere e nei diari di Pizarnik è quello del doppio: “come se io fossi la sede di quell’alterità innominabile che firma col mio nome”. Sembra esserci una scissione che caratterizza sia la sua vita che le sue opere, una “paura di essere due sulla via dello specchio: qualcuno che dorme in me, mi mangia e mi beve”. Torna spesso questo sentirsi sdoppiata; sdoppiamento che sembra più che altro una sorta di invasione, come se un parassita senza nome fosse entrato nel suo corpo e vi si fosse installato, nutrendosi di lei. Sembra essere una sorta di Super-Io sadico che gode di Alejandra e della sua sofferenza, tanto da farle scrivere nei diari: “viene voglia di suicidarsi con la metà del corpo per vedere il godimento dell’altra metà, che da un balcone si metterebbe ad applaudire euforicamente per quel dramma gratuito e necessario”. Una parte intrusa di lei, definita la “Alejandra giudice”, che vuole annientarla e portarla alla follia, come scrive a soli vent’anni: “ieri, mentre temevo la pazzia, qualcuno rideva dentro di me: ‘e tu sei quella che vuole scrivere romanzi, tu quella che vuole scrivere le poesie più belle’, e la voce rideva”. Lo specchio di cui parla Pizarnik non ha a che fare con il riconoscimento, con un’immagine speculare che le rimandi qualcosa di sé, ma è piuttosto un’alterità assoluta e crudele, in cui “una mano trascina la chioma di un’affogata che non smette di attraversare lo specchio”. C’è la morte che la attende al di là del vetro, una morte cui Alejandra ha tentato di resistere con l’aiuto della scrittura, utilizzando le parole come una corazza che la ancorasse al terreno.

Lo specchio della melanconia

Pur non arrivando mai a scrivere il tanto desiderato romanzo, Pizarnik non si è dedicata solo alle poesie, ma è stata anche autrice di alcuni saggi, recensioni, pièces teatrali e prose. Tra queste ultime la principale, La contessa sanguinaria (pubblicata in italiano da Playground nel 2005), compare per la prima volta in una rivista argentina nel 1965. Il testo ruota intorno alla leggenda della contessa Bàthory, vissuta nel Sedicesimo secolo e autrice tra le mura del suo castello di ben seicentocinquanta efferati omicidi di giovani ragazze. Emerge qui tutto il lato sadico del Super-Io di Alejandra, che forse non a caso si batte perché questo testo venga pubblicato in forma di libro nel 1971, a un anno dalla sua morte, quando anche la sua poetica inizia a somigliare sempre più a un assemblaggio di parole oscene, denudate, senza veli. All’interno del testo c’è un capitoletto che Alejandra titola “lo specchio della melanconia”, male del quale la contessa sembrava soffrire. Qui Pizarnik sospende per un attimo le minuziose descrizioni à la Sade per dipingere un quadro a mio avviso molto preciso della melanconia: “è una scena spoglia dove l’io inerte è assistito dall’io che soffre per tale inerzia. Quest’ultimo vorrebbe liberare il prigioniero, ma qualsiasi tentativo fallisce come avrebbe fallito Teseo se, oltre che se stesso, fosse stato anche il Minotauro; ucciderlo avrebbe dunque significato uccidersi”. Ecco di nuovo il doppio, la “galleria di echi e specchi che è l’anima melanconica”, un doppio in cui la libertà coincide con la morte. Come sottolinea Recalcati, se nel lutto abbiamo un lavoro simbolico intorno alla perdita reale di un oggetto, nella melanconia la perdita non è simbolizzabile e, dunque, l’oggetto resta incollato al soggetto – è in tasca, direbbe Lacan. Questa impossibilità di scollamento genera, come diceva Freud, un’”ombra dell’oggetto” che cade sul soggetto, non permettendogli mai di liberarsi da quel doppio, se non con la morte. In questo senso, come scrive Pizarnik, uccidere una parte – l’oggetto – significherebbe uccidere anche il soggetto, che solo attraverso il passaggio all’atto potrebbe, illusoriamente, pensare di essere finalmente libero dall’ombra di quell’ “io inerte”, come lo chiama Alejandra. In tutta la sua produzione poetica ritornano frammenti della sua infanzia, oggetti insieme perduti e non perduti, protuberanze necrotiche di cui non riesce mai a liberarsi. “Si può morire di presenze”, si può morire del fatto di non poter perdere. Alejandra è “sottomessa alla bambina muta che parla a mio nome”, che ritorna costantemente come un doppio capriccioso che non se ne va, che non fa che chiederle conto di qualunque cosa: “mi affido a una bambina mostro”. Spesso torna nelle sue poesie il riferimento ad Alice nel paese delle meraviglie di Carroll; come sottolinea in un'intervista rilasciata a Martha Moia, una delle sue ultime compagne, e pubblicata postuma: “una delle frasi che più mi ossessionano la dice la piccola Alice nel paese delle meraviglie: 'sono venuta soltanto a vedere il giardino'. Per Alice e per me, il giardino sarebbe il luogo dell'incontro […] malmenata dal vento, avanzo nel bosco, mi allontano alla ricerca del giardino”. Alejandra sembra deviare dal sentiero del linguaggio e scivolare come Alice nella tana del coniglio, ritrovandosi in un mondo di paradossi, assurdità e non-senso, dove ogni incontro – con se stessa e con gli altri – diventa impossibile. “Sono venuta soltanto a vedere il giardino dove qualcuno moriva per colpa di qualcosa che non accadde o di qualcuno che non venne. Lei è un interno. Tutto è stato troppo e lei se ne andrà. E io me ne andrò”. Prima e terza persona si alternano in tutta l’opera di Alejandra; io e lei, che si guardano, si scrutano, si uccidono: “ora, in quest’ora innocente, io e colei che fui ci sediamo sulla soglia del mio sguardo”. Tra il 1971 e il 1972 il linguaggio si sgretola e lascia il posto a qualcosa che ha il sapore di lalangue, che non è nell’ordine del senso ma del ritmo, della musicalità. Nei suoi ultimi scritti le parole sembrano venire espulse, buttate via, senza una logica, senza freni inibitori. Erotiche, pornografiche, con elenchi di frasi sconnesse, nomi che si accavallano, suoni che inghiottono il senso: “in verga dura non v'entra mosca, disse Can't”. Del resto è la stessa Alejandra a sottolineare in quel capitoletto de La contessa sanguinaria la connessione tra ritmo e melanconia: “credo, insomma, che la melanconia sia un problema musicale: una dissonanza, un ritmo alterato. Mentre fuori tutto accade con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro c’è una lentezza esausta da goccia d’acqua che cade di tanto in tanto. Ecco perché quel fuori contemplato dal dentro melanconico risulta assurdo e irreale e costituisce ‘la farsa che tutti dobbiamo rappresentare’”.

Dopo alcuni mesi trascorsi in un centro psichiatrico di Buenos Aires, il 25 settembre 1972, all’età di 36 anni, Alejandra si suicida con un’ingestione di barbiturici, forse separandosi o forse riunendosi a quella “bambina che non fui mai”: “morire significherebbe forse – e questa è la sua unica speranza – abbracciarsi senza paura, aprire gli occhi e vedersi”.

In uno degli ultimi scritti “dalla sala di psicopatologia” dell’ospedale psichiatrico in cui si trovava, Alejandra si rivolge così direttamente al padre della psicoanalisi: “o vecchio bel Sigmund Freud, la scienza psicoanalitica si dimenticò la chiave da qualche parte: aprire si apre, ma come chiudere la ferita?”.

Bibliografia

Freud S. (1915), “Lutto e melanconia”, in Metapsicologia, in OSF, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.

Lacan, J. (1949), “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io”, in Scritti, vol. 1. Einaudi, Torino, 2002.

Lacan J. (1953), “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, in Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino, 2002.

Lacan J. (1972-1973), Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011.

Lacan, J. (1975-1976), Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006.

Pizarnik A., La figlia dell’insonnia, Crocetti, Milano, 2004.

Pizarnik A., La contessa sanguinaria, Playground, Roma, 2005.

Pizarnik, A., Poesia completa, Lieto Colle, Como, 2018.

Pizarnik, A., L'altra voce. Lettere 1955-1972, Giometti&Antonello, Macerata, 2019.

Pizarnik A., Il ponte sognato. Diari, vol.1 (1954-1960), La noce d’oro, Roma, 2022.

Recalcati M., Le nuove melanconie, Raffaello Cortina, Milano, 2019.