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Re Lear – Love, and be silent

Questo contributo è dedicato a Vincenzo Moretti, amico e collega a cui ho voluto molto bene. Il ricordo delle serate trascorse con Vincenzo e gli altri colleghi del gruppo Smp “Shakespeare e Psicoanalisi” mi ha accompagnato costantemente nella scrittura di queste righe, e i contenuti sono il risultato di un lavoro intrapreso insieme.
Durante i nostri incontri Vincenzo è stato attivo e sempre al lavoro, e provo una grande gratitudine per il modo generoso con cui ha saputo spendersi.

«Sei diventato vecchio prima di essere diventato saggio, zietto!»
Queste sono le parole, con cui il Fool, il Matto, rimprovera aspramente il vecchio Re Lear.
Nel Re Lear, composto da Shakespeare intorno al 1600, Lear, ormai anziano, decide di abdicare al trono e dividere il regno tra le sue tre figlie, in misura direttamente proporzionale all’amore che ciascuna esprimerà verso il padre. Inizia così, cominciando dalla primogenita, una sorta di gara in cui vincerà colei che saprà esaltare, nel modo più smisurato, il proprio amore.
Goneril: «Signore io vi amo più di quanto la parola possa dire … oltre ogni misura io padre vi amo»
Regan: « io trovo felicità soltanto nell’amore dell’amata Altezza Vostra».
Davanti alla domanda incalzante del padre «cosa sai dire per guadagnare un terzo più opulento di quello delle tue sorelle? Parla», Cordelia, la terzogenita, risponde semplicemente: «niente», dopo aver detto tra sé e sé ora che dirò…? Ama e taci (What shall Cordelia speak? Love, and be silent). In questo modo mette in scacco tutti, primo fra tutti il padre.
Lear, sconvolto: «dal niente non nasce niente!» E decide di diseredarla.
Da questo momento non c’è più speranza per nessuno: Cordelia viene diseredata dal padre e le due figlie maggiori iniziano subito a non tollerare più Lear che, dopo aver assegnato loro le porzioni del regno, pretende con arroganza di vivere, a turno, accompagnato da 100 soldati e servitori, nelle parti di regno che ormai non appartengono più alla sua maestà, ma alle figlie.
Lear si perderà infine, solo e farneticante in mezzo alla tempesta; tra le figlie scoppierà una guerra per la riconquista del regno, e la tragedia si concluderà con la morte di tutti i personaggi, compresi Lear e Cordelia.
In questo viaggio tra deliri di grandezza ed eccessi di ogni tipo, Lear è affiancato da un giovane amico, che a lui si rivolge con un affettuoso mine nuncle – tradotto in italiano con: «zietto». È il Fool, il Matto; si presenta con un berrettino a sonagli e un eloquio irriverente. È l’unico che dice la verità e che, dalla sua posizione di Matto, viene ascoltato. 
Non a caso scrivendo queste righe ho commesso un lapsus di scrittura, scrivendo prima cool e poi correggendolo in fool, perché nonostante il suo berrettino a sonagli, il cool-fool è il vero saggio dell’opera.
È lui che centra subito la questione: «Faresti meglio a metterlo tu, il berretto a sonagli, zietto». Lear ribatte con voce piena: «io sono il Re!!», mostrandosi così in tutta la sua follia («se un uomo che si crede un re è un pazzo, un re che si crede un re non lo è da meno», Lacan 2002, pp- 164-164), mentre il Fool non può che rimandargli il fatto che, invece della corona, un berrettino a sonagli gli sarebbe più consono.
«Sai far uso di niente, zietto?»
«Dal niente nasce niente», risponde ancora Lear.
Su questo «niente» si gioca tutta l’opera. Potremmo dire che in questo niente si trova condensato l’insegnamento lacaniano sull’amore paterno, mostrato qui nel suo fallimento, messo in scena dal punto di vista degli effetti nefasti di un padre che si dimostra essere in realtà un anti-padre.
Che padre è, Lear? Che cosa produce Cordelia con la sua risposta? E soprattutto, cosa ci insegna Shakespeare con quest’opera immensa?
«Ogni mese avrò diritto a cento cavalieri che voi dovrete mantenere, dimorerò a turno presso di voi. Del re conserverò soltanto il nome e le prerogative».
Lear è un padre che vuole tutto: vuole l’adulazione, vuole la venerazione, e vuole l’autorità della corona, ma priva della responsabilità che questa implica. Vuole le figlie al proprio servizio, in una vicinanza incestuosa dalla quale loro sono terrorizzate. E, in cambio di tutto questo, è disposto a dare soltanto beni materiali, puramente materiali, ovvero beni che non fanno segno di alcunché. Egli schiaccia cioè la logica dell’amore su quella del baratto, e si muove senza ritegno tra le sue pretese deliranti.
«Amare è dare ciò che non si ha… a qualcuno che non lo vuole» (Lacan, 1964-65, p. 132). E, potremmo aggiungere in questo caso, a qualcuno che non lo chiede.
Lear è l’anti-padre.
Se un padre è colui che riesce a limitare la tendenza incestuosa del desiderio, a incarnare il senso del limite, questo implica che sia lui stesso, innanzitutto, ad incarnare in sé la possibilità di una perdita di godimento, potendo così testimoniare che non tutto è possibile, ma che, all’interno di questo perimetro di perdita, possono fiorire dei germogli di desiderio che hanno il potere di salvare la vita. E solo all’interno di questo perimetro può circolare amore, inteso lacanianamente: «Amare è dare ciò che non si ha… a qualcuno che non lo vuole». Lear chiede amore, ma confonde l’amore con l’adulazione e risponde dando in cambio degli oggetti, reputando l’amore stesso misurabile, conteggiabile, al punto da poterne identificare la contropartita corrispondente in estensioni di terra. Quindi le figlie non possono manifestargli il loro amore, proprio perché lui lo pretende, perché amandolo di un amore preteso sono impossibilitate a dare il loro amore come dono autentico.
Il segno d’amore non può essere preteso, poiché la domanda che lo anticipa lo invalida automaticamente, in quanto lo svincola dall’intenzione autentica di chi lo dona.
A sua volta Lear non si mostra in grado di amare le figlie, poiché non riesce a farlo senza pretendere che loro gli diano in cambio ciò che lui vuole: adulazione, amore esclusivo, disponibilità illimitata a soddisfare i suoi capricci. Egli confonde cioè la logica dell’amore con quella del baratto.
L’unica speranza si gioca dunque su questo «niente», all’interno del quale c’è la chiave di tutto. Il «niente» al quale Cordelia si appella, in un tentativo che pare provocatorio, è l’unico modo per introdurre un vuoto da qualche parte, per permettere – ai personaggi sulla scena – di muoversi e circolare in modo diverso. In sostanza, per permettere alla sua famiglia di provare ad essere tale e ai suoi componenti di essere legati da un amore autentico.
«Sai far uso di niente, zietto?»
No, Lear non saprà far uso di niente.
Il niente di Cordelia non otterrà infatti quell’effetto.
Laddove il padre fa la legge, una legge sua, e incarna un desiderio privo di limite, il desiderio prende una deriva incestuosa, il cui effetto non può che essere la devastazione.
Solo alla fine, quando Cordelia apprenderà che il padre ha perso la ragione, può dichiarare il suo amore per lui: «Oh caro padre, è per te solo che mi adopero», ma la tragedia sta inesorabilmente andando verso la sua fine, e di lì a poco moriranno entrambi.

Bibliografia:
Shakespeare, W., King Lear/Re Lear (1605-1606), Einaudi, Torino, 2004
Lacan, J., Il Seminario, libro VIII, Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino, 2008
Lacan, J., Séminaire XII, Problèmes cruciaux pour la psychanalyse (1964-65)
Lacan, J., “discorso sulla causalità psichica” (1946), in Scritti, Einaudi, Torino, 2002
Speziale-Bagliacca, R., Crescere corvi. Psicoanalisi di Madame Bovary e Re Lear, Marietti, Genova, 1992
Fusini, N., Di vita si muore, Mondadori, Milano, 2010