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Il filo come segno. Intervista a Elena Nonnis

È l’artista Elena Nonnis che mi ha suggerito con i suoi lavori ed in particolare con le opere della mostra interno 14 una riflessione sul segno.

Elena Nonnis è nata a Roma nel 1965. Vive e lavora a Roma. Il suo lavoro parte dall’incisione e si sviluppa prevalentemente nel segno. Alla fine degli anni novanta il segno diventa cucito e, dal 2008, l’artista realizza una serie di installazioni con filo annodato e avvolto intorno ad una sottile anima di ferro. Il filo dunque, usato come segno, assume diverse declinazioni, tutte rigorosamente monocrome.  Nel lavoro del 2016 Cose che non si vedono i frammenti cuciti emergono dallo spazio bianco, guadagnando la luce dal rovescio della tela. Sono immagini «afferrate dalla memoria e subito abbandonate ad altri spazi. Corredi che passano di mano in mano da chissà quale tempo. Poi il segno si converte e a tratti abbandona il retro: in un eterno rovescio il negativo diventa positivo, ridotto all’essenza del disegno nudo. Rinuncia a nascondersi, non si protegge, si manifesta, diventa presente. Come un dono» (parole dell’artista)

Per l’artista Elena Nonnis i suoi “segni” sono atti di corpo depositati attraverso un disegno, poi tradotti conun filo cucito sulla tela. I segni sono al rovescio, sono sottratti, sono segni per sottrazione.

Analogamente, le parole che l’analista pronuncia possiamo immaginarle come segni, gesti, “azzardi”, che vogliono dire ma non dire, segnalare più che segnare. Sono modi per togliere più che aggiungere, e creare continuamente mancanze. Insomma provare a segnare le cose che non si vedono: dei non segni. Cucire al rovescio per rimanere stupiti di quello che accade sul dritto. Così l’analista, cerca di spogliare le parole, e fare l’operazione di sottrarre: la sottrazione di quel sé che non è necessario. Essere ascolto per trasformare.

Da qui l’idea di incontrare l’artista per cogliere meglio le sfumature ed il messaggio del suo lavoro artistico:

D: Ci parla del suo cammino artistico?

R: Nasce d’istinto, da piccolissima, i ricordi più belli e intensi sono legati al segno tracciato con qualunque mezzo su qualunque supporto: dal dito sullo specchio appannato al sasso sull’asfalto, al bastone sulla terra battuta. I lavoretti all’asilo con il pongo o il punteruolo erano la mia felicità. Nasce anche dalla mancanza di mezzi. Dove non c’è immagine c’è immaginazione, e a casa mia non c’erano libri o riviste o quadri da cui imparare. Però c’erano le nuvole nel cielo che facevano sempre nuove forme, e le macchie sui muri da completare con la mente, c’erano i coperchi bianchi delle scatole delle scarpe da riempire di segni e il retro dei fogli del calendario, bianchissimi, perfetti, tutti per me alla fine dell’anno. Anche le bambole scarseggiavano e una volta ne ho avuta in prestito una dalla figlia di un’amica di famiglia. Io ho preso una penna blu (ancora lavoro con la penna) e l’ho tutta ridisegnata, gli occhi, le ciglia, le labbra… ricordo il gusto della penna che scorreva sulla plastica morbida della faccia della bambola. Ho preso tante botte per questo, e non ne capivo il motivo, diciamo che io non capivo loro e loro non capivano me. E’ capitato altre volte nella vita.

Il mio cammino dunque sta nell’infanzia, è partito da lì e lì torna ogni volta che metto piede a studio o disegno su una tela trovata, o fisso la tela su un telaio e inizio a cucire, riprendendo i miei segni da chissà dove.

D: Per lei, l’artista Elena Nonnis, cosa sono i suoi segni?

R: I miei segni sono il segno che esisto.

D: Dunque come procede quando lei “segna” la tela?

R: Prima arriva l’immagine, e può essere una vecchia foto di famiglia o di famiglie che non conosco, può essere un volto che mi colpisce, che mi fa pensare alla sua storia. Allora disegno, con una penna a biro o con una matita morbida, molto velocemente, prima che vada via, (come la tavola imbandita della piccola fiammiferaia) le immagini mi attraversano profondamente e velocemente e io le afferro al volo prima che svaniscano, le fermo, le trattengo con i segni e restano con me, ne resta la traccia che io creo. Poi a volte la cucio con il filo nero, la fermo meglio, altre volte la lascio a matita, più fresca, più libera. Sono sempre immagini di persone, è l’umanità che mi interessa in tutti i suoi aspetti, la condizione umana.

D: Quando si guardano i suoi lavori ho l’impressione che l’osservatore sia collocato nel luogo e nella funzione di “ritracciare” le immagini, entrare nella tela, curiosare, seguire i fili nel loro affondo. Che ne pensa?

R: E’ così.  E’ quello che faccio anch’io in fondo, e invito lo spettatore a fare altrettanto, a fare insieme questa conoscenza, il lavoro è anche per me un’epifania, condividere questa manifestazione della visione e dell’immagine è un po’ il senso dell’arte.

D: Lei mi ha fatto conoscere Derrida in Memorie di un cieco. Lui sostiene che l’autore del disegno, nell’atto di tracciare non vede quel che traccia… Che chi traccia il segno resta cieco al proprio tracciare.  E’ così anche per lei? Ci aiuta a capire?

R: E’ un po’ quello che dicevo dell’immagine che va fermata prima che svanisca, il lavoro “accade” senza una volontà o un progetto definito. Accade, e l’artista è un mezzo, trasferisce e trasforma l’immagine da una dimensione a un’altra, l’intuizione diventa forma attraverso il collegamento del cervello, degli occhi e della mano, tutti elementi che coincidono in pochi istanti, sospendendo il pensiero e tutto il resto. E’ un momento in cui bisogna perdersi e può essere terribile e meraviglioso. Poi col tempo è meno terribile, perché impari che c’è un luogo da qualche parte di te in cui puoi accedere, e sai che poi torni.

D: Continuando con Derrida «La traccia segna un limite. Una volta tracciata diventa qualcosa di altro. Il disegno fa sempre segno verso questa inaccessibilità, verso la soglia dove non appare che l’intorno del tratto, ciò che spazia delimitando e che dunque non gli appartiene» (Derrida, 2003, p.73). Il suo lavoro mi pare una testimonianza di tale affermazione, una esemplificazione tangibile. Che ne pensa?

R: Che Derrida è una meraviglia, e anche il lavoro lo è, la possibilità di meravigliarsi, ancora. «La traccia segna un limite. Una volta tracciata diventa qualcosa di altro» è il limite tra la realtà esteriore e l’interiorità, è la possibilità di trasformare la realtà, e soprattutto il dolore, l’estraneità, la paura, di “arginare” la realtà per restituirla ad una dimensione accessibile del sentire e del vivere.

D: Che vuol dire: “Lavorare per sottrazione nel suo atto creativo?”

R: La prima fase è sottrarsi in generale. Non farsi prendere. Intendo fare resistenza a quanto normalmente viene richiesto da una quotidianità spesso alienante. Dunque sottrarsi al qualunquismo, all’assenza di pensiero, all’assuefazione, alla fretta, a tante cose che non hanno un senso reale e che lo assumono per sentito dire. Bisogna stare attenti, e per stare attenti bisogna distrarsi. Sottrarsi. Lasciare poche cose che riconosciamo autentiche, che sentiamo. Ciò che resta si può tradurre in segno. Lasciare il vuoto in realtà è fare spazio, spazio vuoto per le cose che non si vedono, per quanto deve ancora accadere. Lasciare spazio.

D: Qual è la difficoltà dell’artista?

R: Posso parlare per me. Per me la difficoltà è stata riconoscermi. C’era un costante disallineamento tra quello che sentivo e quello che vedevo, disallineamento tra quello che potevo fare e le aspettative degli altri. Questo portava alla sottrazione, alla distrazione, a essere altrove. Ma poi l’arte mi veniva incontro e, come Pollicino, lasciavo tracce per segnare la mia strada, per tornare in me. Nel lavoro io c’ero, era una prova della mia esistenza e, per quanto confuso, del mio sentire. Poi c’è stato bisogno di molto tempo e di molto lavoro per riconoscermi come artista. Perché la società o il mondo dell’arte ti impone un contesto di riconoscimento, e anche questa può essere una condizione di disagio. La difficoltà dell’artista (ma in fondo per ogni essere umano credo sia così) è quella di accettare una condizione che nessuno ti riconosce, né la famiglia di origine (se non sei dell’ambiente dell’arte), né il mondo dell’arte (se non sei dell’ambiente dell’arte) ma soprattutto bisogna diffidare dell’ambiente dell’arte, dai suoi giudizi e pregiudizi, dagli inutili presenzialismi. Col tempo dunque bisogna affidarsi a una propria dimensione e condizione fatta di un sentire quanto più possibile autentico. Restare dentro il lavoro, non tradirlo per non tradirsi. E allora va bene così.

D: Ma allora non vi è mai un punto di arrivo?

R: No, per fortuna non c’è mai. Tuttavia, si cerca per molto tempo, è nella natura umana cercarlo continuamente, un punto fermo, sicuro.  Rinunciare alle sicurezze, accettare di avere paura, paura di morire un’altra volta. Rinunciare a quel che di sé si conosce.  E lo devi fare da solo. Poi arrivi alla consapevolezza che la solitudine è una condizione naturale, oltre che necessaria. Si nasce da soli e si muore da soli e… bisogna allenarsi a continue trasformazioni che alla fine magari ti riportano al punto di partenza. Ma il punto di partenza sei tu, e dunque potrebbe essere la strada giusta.

D: Che atteggiamento suggerisce di avere?

R: Ognuno fa storia a sé, dipende da tanti fattori e i suggerimenti possono non valere per tutti ovviamente. Ma io credo che sia importante mantenere vivo l’istinto, credere in ciò che senti anche mettendo in conto che può essere il contrario della realtà. Non importa, troviamo altre versioni della realtà, l’arte in fondo è questo.

 

Bibliografia

DerridaJ. (2003), Memorie di cieco, Abscondita, Milano (1990)

Merleau-Ponty M., (1969) Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano

Biografia

Elena Nonnis è nata a Roma nel 1965. Vive e lavora a Roma.

Partecipa a vari progetti site-specific e collabora con associazioni teatrali di cui ricordiamo i progetti: 2009 Ombra Tenue Billy Holiday, Teatro della Dodicesima, Roma 2008Dramma Verticale, Teatro Argot, Roma.

Nel 2015 partecipa al progetto Bocs art, residenza artistica a Cosenza curata da Alberto Dambruoso. Nel 2013 è invitata ad elaborare un intervento e un’installazione nell’ambito del Convegno “Creatività e inconscio”, MAXXI, aula Conferenze, Roma, e un’installazione permanente dal titolo L’erba cattiva per il MAAM di Roma, progetto a cura di Giorgio De Finis.

Principali mostre personali: 2019 Passaggi,Galleria Gallerati, Roma; 2016, Cose che non si vedono Interno 14, Roma; 2013 Muralla, Sala S. Rita, Roma; 2011 Round About, Studio Arte Fuori Centro, Roma; 2010 Snodi,3DarteContemporanea, Viterbo.

Mostre collettive: 2020 AlbumArte Virtual exihibition/Da Casa–Abitare il tempo sospeso, 2020; AlbumArte 20X20; 2019 “Più Voci. Traduzioni visive”, Galleria sotto l’Arco. Altidona, Fe. 2019 “libri d’artista. L’arte da leggere” Castello Svevo – Bari, Castello di Copertino, Lecce. 2019 “La superficie accidentata/videoarte” Fourteen arTellaro, Lerici (SP) 2017 “Ricognizioni. Dai Bocs art i linguaggi del contemporaneo” Bocs art Museum di Cosenza a cura di Alberto Dambruoso. 2017 “Torriflumen”, Torrida Tiberina, Roma, a cura di Maria Arcidiacono. 2014 Doppio Segno, Galleria Anna Marra contemporanea, Roma. 2013 Ogni uomo è un’isola, Galleria Martano, Torino. 2013 Appuntamento al buio, Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea Castello Colonna- CIAC   Genazzano   Roma. 2013 Una rosa per un artista, Sala S. Rita, Roma. 2012 PPP una polemica inversa- omaggio a Pier Paolo Pasolini, Roma, Palazzo Incontro. 2010 Rigorosamente Libri Fondazione Banca del Monte – Foggia. 2009VI Biennale del Libro di Artista, Cassino (FR); Capolavori D’Arte Contemporanea Museo Vittoriano – Roma. 2008Daily Life Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea Castello Colonna/Ciac – Genazzano.