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Perfect Days di Wim Wenders

Fotogramma dal film "Perfetc Days" di Wenders"

Wim Wenders e il dono dell’immanenza: con Perfect days, film di indubbia ispirazione zen, la singolare quotidianità di Hirayama, il protagonista del film, fatta di consueto piuttosto che di straordinario, ci induce a immergere lo sguardo nello splendore dell’immanenza, laddove “il giorno riuscito” è il profondo giorno comune che sa scorgere l’inconsueto nella ripetizione del consueto. (Bi-yang-lu, 1994).

Perfect days, ambientato a Tokio, è anche un tributo al cinema di Ozu e alla scoperta delle piccole cose, colte nella semplicità del loro apparire; Hirayama è infatti anche il nome del protagonista dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè (1962).

In Perfect days la quotidianità di Hirayama, uomo sulla sessantina, addetto alla pulizia dei bagni pubblici, è raccontata con stile documentaristico, come se il regista seguisse le giornate del suo protagonista con una camera nascosta.

Le giornate di Hirayama, che si susseguono ripetitive ed essenziali, stesso lavoro, stesse azioni, corposi silenzi, radi incontri, parlano di una soggettività che non risulta affatto ingrigita dalla monotonia, bensì tutt’altro, lo sguardo del protagonista sembra infatti esprimere una soddisfazione autentica nutrita dal “qui ed ora” dell’esistenza. “Qui ed ora” sono per l’appunto le parole che lo stesso protagonista pronuncia in uno dei rari e stringati dialoghi presenti nel film, e precisamente in una scena in cui parla con la nipote adolescente che ha accolto, per qualche giorno nella sua casa.

Il Qui in questione, come anticipato all’inizio, è il “Qui di una profonda immanenza” di cui scrive Byung Chul Han (2018): «il buddhismo zen è animato da una fiducia originaria nel Qui, da un’originaria fiducia nel mondo. Questa disposizione spirituale, ignara di azionismo ed eroismo, è di certo caratteristica del pensiero estremo orientale in generale. Per via della sua fiducia nel mondo, il buddhismo zen sarebbe una religione del mondo in senso particolare, poiché non conosce né una fuga dal mondo né una negazione del mondo. L’espressione zen “Nulla di santo” nega ogni luogo straordinario, extraterrestre. Essa indica uno sguardo all’indietro nel Qui quotidiano».

Wenders ci fa assaporare con gli occhi di Hirayama una poesia del quotidiano, libera da qualunque trascendenza; al riguardo, gli occhi del protagonista cercano spesso il cielo, ma questo sguardo non sembra dire di un’invocazione né tanto meno di uno stato di rassegnazione, quanto piuttosto di un quieto appagamento nello stare lì dove si è, nel volgere i propri sensi a quanto lo circonda, ed è anche nell’affermazione di questo stato che si manifesta il piacere per la lettura, la musica e la fotografia che caratterizza la vita del protagonista.

Hirayama con la sua Olympus cattura infatti immagini che, come osserverebbe Rolanda Barthes – il quale non a caso amava la filosofia zen – mirano a cogliere un punto di non saturazione, “il passaggio di un vuoto”, uno squarcio di cielo tra gli alberi, il vuoto che separa le foglie e il vuoto in cui si stagliano i grattacieli della città.

Anche l’attività onirica è rappresentata con la stessa essenzialità: sogni in bianco e nero, che in una singolare elaborazione artistica – per dirla con le parole di Fachinelli – rappresentano il “resto del giorno”, frammenti di sogni che sembrano svuotati da qualsiasi interiorità, opere d’arte come una “modalità di organizzazione del vuoto” (Lacan, 1994).

Il nulla del buddhismo zen è privo di padronanza e libero da ogni narcisistica autoreferenzialità: «è vuoto anche nel senso che non si rigonfia in se stesso, né si diffonde e ribolle, e né possiede la pienezza del se stesso, la ricolma interiorità che nella sua sovrabbondanza si riversa poi all’esterno» (Byung Chul Han, ibidem).

Le similitudini e i punti di incontro che si potrebbero rintracciare tra la pratica della psicoanalisi e quella del buddhismo zen non sono a mio avviso pochi, ma mi limito ad un breve accenno: tra gli effetti di trasformazione che una cura analitica produce, possiamo sicuramente individuare una prima modificazione che concerne lo statuto della domanda, e perché questo accada è necessario che il luogo dell’Altro si svuoti, donando al soggetto una condizione inedita, che lo vede non più subordinato alla domanda dell’Altro bensì capace di assumere il proprio desiderio, la propria vocazione. Analogamente, nella pratica zen “il vuoto svuota” e lascia essere.

In questa chiave di lettura, un secondo parallelismo tra l’esperienza analitica e la pratica del buddhismo zen consisterebbe negli effetti di trasformazione riguardanti il modo di vivere il desiderio: non solo come aspirazione, anelito perennemente insoddisfatto, bensì come stato, nell’esperienza dell’analisi (Recalcati, 2020). Parimenti nella pratica buddhista il desiderio è affrancato da quell’“eterna spinta” che punta alla trascendenza.

E in fine come Wenders ci porta a considerare in Perfect days, un desiderio risvegliato “allo splendore dell’immanenza”.

Bibliografia:

Barthes, R., La camera chiara, Ed. Einaudi, Torino, 2003

Bi-yan-lu., La porta senza porta, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, trad. dall’inglese di Adriana Motti, Adelphi, Milano,1994

Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, Ed. Nottetempo, Milano, 2018

Fachinelli, E., La mente estatica, Ed. Adelphi, Milano, 2009

Lacan, J., Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino, 1994

Recalcati, M., Convertire la pulsione? Sul processo di soggettivazione nell’esperienza dell’analisi, Ed. Paginotto, Trento, 2020